Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/200

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CANTO X

     Poi fummo dentro al soglio de la porta
che ’l malo amor de l’anime disusa,
3perché fa parer dritta la via torta,
     sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avessi li occhi vòlti ad essa,
6qual fòra stata al fallo degna scusa?
     Noi salivam per una pietra fessa,
che si moveva d’una e d’altra parte,
9sí come l’onda che fugge e s’appressa.
     «Qui si conviene usare un poco d’arte,»
cominciò ’l duca mio «in accostarsi
12or quinci or quindi al lato che si parte».
     E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
15rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
     che noi fossimo fuor di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
18su dove il monte in dietro si rauna,
     io stancato ed amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano,
21solingo più che strade per diserti.
     Da la sua sponda, ove confina il vano,
al piè de l’alta ripa che pur sale,
24misurrebbe in tre volte un corpo umano;
     e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
27questa cornice mi parea cotale.
     Lá su non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
30che dritto di salita aveva manco,