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210 la divina commedia

     Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava
in vista; e se volesse alcun dir ‛ Come? ’,
102lo mento a guisa d’orbo in su levava.
     «Spirto,» diss’io «che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
105fammiti conto o per luogo o per nome».
     «Io fui Sanese» rispose «e con questi
altri rimondo qui la vita ria,
108lacrimando a colui che sé ne presti.
     Savia non fui, avvegna che Sapia
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
111piú lieta assai che di ventura mia:
     e perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’i’ ti dico, folle,
114giá discendendo l’arco de’ miei anni.
     Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
117e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
     Rotti fur quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
120letizia presi a tutti altri dispári,
     tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia,
gridando a Dio: ‛ Omai piú non ti temo! ’
123come fe’ ’l merlo per poca bonaccia.
     Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
126lo mio dover per penitenza scemo,
     se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
129a cui di me per cantate increbbe.
     Ma tu chi se’ che nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
132sí com’io credo, e spirando ragioni?»
     «Li occhi» diss’io «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l’offesa
135fatta per esser con invidia vòlti.