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che l’autor fiorentino “ha posto molte delle situazioni del Casarse por vengarse in un’altra sua opera scenica, e precisamente in quella intitolata La forza del fato o il matrimonio nella morte” dove pure si incontra “un matrimonio che una giovane accetta per vendetta in un momento di esaltazione”.

Dunque il Goldoni, oltre e meglio che la novella del Gil Blas, potè conoscere non dico l’autore spagnolo, ma la imitazione italiana, e forse il vecchio canovaccio ricavato dal Cicognini, che doveva servire per l’addietro alle recite dei comici veneziani. Ma anche qui, mentre il dottor Carlo si preoccupava sopra tutto di sgomberare il dialogo e l’azione da ogni buffoneria e da ogni gonfiezza del Seicento, riusciva a togliere o a smorzare ogni effetto teatrale; e non seppe valersi per niente di quegli elementi drammaticissimi che rendono bella ancora oggi la novella di Le Sage. Manca all’Enrico goldoniano la violenza delle passioni, manca l’efficacia e la naturalezza del dialogo, manca il colorito: tutto è raffreddato e stentato, tutto illanguidisce e incepisca in quel misero linguaggio della cosidetta poesia tragica dei nostri buoni eruditi del secolo decimottavo. Non un personaggio, non una scena, non un verso che siano degni d’essere ricordati o additati, se non fosse qualche ardito accento, familiare all’indole stessa della tragedia, ma sempre più comune e minaccioso nel periodo che precorse la Rivoluzione (“Il regal fregio, - Ch’è dono di natura, anco talvolta - Cade sovra gli abbietti”; a. I, sc. 10. “Rammentate che i re soggetti sono ecc. ecc. - Non lice al re ciò che la legge offende”: a. IV, sc. 5). Si noti poi che fra le virtù di Leonzio che sacrifica la propria figlia e l’amore di Enrico l’autore rimane dubbioso; ma il pubblico non vuole incertezze, il pubblico parteggia per l’infelice e giovane re, a dispetto della morale che arresta la mano del poeta. Qui appariscono veramente i limiti dell’arte goldoniana: quando il Goldoni vuol penetrare con la fantasia in un mondo che non ha mai veduto coi propri occhi, la rappresentazione della vita gli sfugge interamente: egli si smarrisce, diviene falso, ripete a memoria le frasi imparate sui libri, come un fanciullo sorpreso a calzare il coturno. Questo dramma di passione e di sangue non ha potuto scuotere l’anima placida e sorridente del commediografo veneziano, davanti al quale già sorge la lieta figura di Momolo cortesan.

L’esame particolare dell’Enrico re di Sicilia non offre pertanto alcuna utilità; e fu già compiuto dal dottor tedesco Arturo Peter, il quale studiò la varia fortuna e le molte imitazioni in Europa del Casarse di Rojas (Des Don Francisco de Rojas Tragödie “Casarse por vengarse” und ihre Bearbeitungen in den anderen Litteraturen, Dresden, 1898). Tuttavia Rosario Bonfanti, poco dopo, risalì di nuovo alla fonte principale dell’Enrico goldoniano e osservò che “la bella novella del Le Sage, ridotta in cattivi versi italiani, perde tutta la sua leggiadria. Stretto anche dall’unità di tempo, non ha potuto l’A. dare il dovuto svolgimento alle passioni e a’ caratteri, e però quello che è naturale e verisimile nella novella, qui cade perfino nel grottesco”. Aggiunge qualche raffronto: “Si badi che la Matilde del Goldoni corrisponde alla Dona Bianca del Le Sage. Gli altri personaggi hanno anche i nomi identici. Alle volte traduce presso a poco l’originale... Vi ha inserito qua e là di suo qualche scena: così la grottesca baruffa tra Costanza e Matilde (I, 10), in cui queste due regine diventano poco meno che due delle tante pettegole