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quadrighe. La Grecia, lasciando Olympia e Nemea, verrà a quelle gare. Esso, cinto della sacerdotale ghirlanda di olivo, porterà i doni ai templi con lunghe pompe, dopo molti sacrifizi, e darà ludi scenici. Di oro e avorio saranno scolpite nelle imposte del tempio le guerre di Cesare (Vergilio lo chiama Quirino, precorrendo, pare, quello che proponeva per lui il nome di Romulus) in Oriente, le vittorie di Actio e la conquista dell’Egitto, i successi ottenuti in Armenia e da ottenersi sui Parthi, sui Cantabri, sui Britanni, sui nemici insomma più lontani e più opposti. Non solo: vi saranno statue che rappresenteranno gli avi Troiani di Cesare; e Apollo: Apollo, di cui Ottaviano voleva essere creduto figlio1. Nè mancherà l’inferno con i suoi supplizi. Così Vergilio concepiva il suo poema. «Intanto si continui il poema agricolo: tra poco saremo alle promesse battaglie di Cesare». Era invero tutto in lode dell’Augusto, che teneva il mezzo del tempio; eppure assomigliava in verità all’Eneide quale la possediamo. Sì: assomiglia. Ma se Enea non vi è pur nominato! Non vi è nominato, ma vi si parla del Tartaro, vi è insomma promessa una νεκυία. Questo è ragionevole supporre, se pur non si voglia intendere che con questi tre versi

          Invidia infelix Furias amnemque severum
          Cocyti metuet tortosque Ixionis anguis
          Inmanemque rotam et non exsuperabile saxum

egli alluda al breve cenno nell’ἀσπιδοποιία (VIII 666-70). Ma se parte del poema designato da Vergi-

  1. Suet. Oct. xciv.