Sulla Sacontala ossia l'Anello fatale, dramma indiano di Calidasa

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Giovanni Berchet

Egidio Bellorini Indice:Berchet, Giovanni – Scritti critici e letterari, 1912 – BEIC 1754878.djvu Letteratura Sulla Sacontala ossia l'Anello fatale, dramma indiano di Calidasa Intestazione 7 maggio 2024 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere (Berchet)/Scritti critici e letterari


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XVI


SULLA «SACONTALA» ossia «L’ANELLO FATALE»
Dramma indiano di Calidasa

Dialogo interamente imaginario ed inverisimile affatto tra Grisostomo e tutti i lettori.

Grisostomo. In India la poesia... Ma, prima di tutto, mi piace d’avvertirvi, signori miei, che qui si parla d’un poeta, il nome del quale non fu registrato mai da’ cancellieri del cosi detto Parnaso in veruna delle serie de’ poeti legittimi. Il concepimento fantastico di Calidasa non discende, né in linea retta né in linea trasversale, da alcuno capostipite greco o latino.

Molti de’ lettori. E che fa questo? Che vuoi dirci con ciò?

Grisostomo. Voglio dirvi che io intendo di lodare liberamente questo poeta illegittimo, e nello stesso tempo di non voler riescire spiacevole a nessuna persona. Però chiunque di voi è rigido adoratore della legittimitá poetica, abbia la bontá di non badare oggi a me: fará bene anzi se mi volterá le spalle e se n’andrá pe’ fatti suoi.

Alcuni de’ piú vecchi. Oh tempi! Oh tempi! Povera Italia, fuor dei tuoi confini si vanno a cercare i poeti oggidí! E levansi in piedi, mettendo sguardi di compassionevole disprezzo.

La moltitudine dá in uno scoppio di riso e fa largo a’ vecchi perché se ne vadano.

Grisostomo. Dichiaro inoltre che qui si tratta di un dramma a cui mancano le due unitá di tempo e di luogo, e che nondimeno è dramma bello e buono quanto qualsisia altro.

I vecchi come sopra. Oh bestemmia! E, poste le mani alle orecchie, partono inorriditi.

Grisostomo. Non v’è piú nessuno che brami d’andarsene? [p. 140 modifica]

Alcuni de’ piú giovani. Noi, noi, o balordo. A noi non importa né dell’India, né di dramma, né di unitá. Importa bensí che nessuno ci faccia il dispetto di parlarci di cose alle quali non abbiamo pensato noi prima. Piú dotti di noi non si può né si debbe essere. Addio; discorrila, se ti piace, colle panche, ma non con noi. Ed affettando uno scherno svenevole, partono a rompicollo, borbottando altre parole che non sono intese.

Uno de’ vecchi rimasti dá segni di contentezza ed esclama: Benone! Siamo finalmente tra di noi. «Poca brigata, vita beata»!

Un altro lettore. Non dite cosi, altrimenti la beatitudine non è per noi. I pochi sono i disertori;... qui siamo in molti e molti assai.

Un altro. E, a quel che pare, tutti buoni amici.

Grisostomo. Me ne consolo... Non parte piú nessun altro?

Tutti. Nessuno, nessuno. Vogliam tutti rimanerci. Parla dunque.

Grisostomo. Mille grazie! Ora, signori miei, è egli vero che tra voi v’è alcuno che, prima di leggere il numero 25 del Conciliatore, non aveva mai udito parlare del dramma indiano La Sacontala ed or vorrebbe che se gliene desse qualche ragguaglio?

Molti. Oh! lo conosciamo da un pezzo quel dramma.

Molti altri. Noi, a dirla schietta, non ne sappiamo niente.

Grisostomo. Mi sia lecito dunque parlare a chi non ne sa niente.

Tutti. Parla, parla; vogliamo essere indulgenti tutti, e lasciarti dire.

Grisostomo. Sappiate dunque che la poesia, non essendo un diritto esclusivo di alcune poche famiglie di uomini, bensí un vero bisogno morale di tutti i popoli della terra ridotti a qualche civiltá, anche nell’Indostan trovò giá da secoli e secoli chi la coltivasse1. [p. 141 modifica]

Uno de’ lettori. È naturale: i greci avranno insegnata l’arte della poesia anche agl’indiani.

Un altro. Probabilmente no. Chi sa anzi che i greci non la imparassero forse eglino dagli indiani? L’India fu probabilmente la culla del sapere umano.

Un altro. Lasciamo stare per ora queste digressioni erudite. Gl’indiani ebbero civilizzazione: dunque anche poesia. La facoltá poetica degli uomini è una facoltá che può essere primigenia in tutti. Se l’Italia, a modo d’esempio, dopo la nuova civilizzazione, non avesse veduto mai il menomo manoscritto greco o latino, credete voi per questo che l’Italia non avrebbe buona poesia?

Grisostomo. Leggo ed ammiro assai anch’io Omero e Virgilio, e lo dico davvero. Ma non sono si pazzo da volermi ostinare a credere che senza gli esempi dei greci e de’ latini noi saremmo privi di buona letteratura nostra.

Il suddetto. La sarebbe senz’essi riescita piú originale.

Grisostomo. Pare che sí. Ma proseguiamo. Sappiate che sir Guglielmo Jones, molti anni fa, ha fondato a Calcutta una societá d’inglesi, denominata «Societá asiatica»; e che questa societá, occupata com’è in continui lavori scientifici ed eruditi, non lascia di mandare di quando in quando in Europa anche alcune traduzioni di poesie indiane.

Uno de’ lettori. Ottima cosa! Quelle poesie serviranno a moltiplicare i diletti all’uomo meramente curioso; e presteranno poi altresi al meditativo nuove occasioni per riconoscere l’uniformitá delle menti umane nella varietá stessa degli accidenti intellettuali. E cosi verrá sempre piú confermandosi nel mondo la mansueta dottrina della fratellanza de’ popoli, nessuno de’ quali ha il diritto di far soperchierie agli altri, qualunque sia il colore della lor pelle.

Grisostomo. Fra i vari generi di poesia, il drammatico è antichissimo d’origine presso gl’indiani; il che è una delle prove dell’antichitá della loro civilizzazione.

Il suddetto. E in che modo?

Grisostomo. La poesia drammatica non è coltivata ne’ popoli se non quando la civilizzazione loro è inoltrata assai. Ponete [p. 142 modifica]mente a tutte le storie dei popoli letterati, e vedrete prima poeti lirici, epici o didascalici, poi, dopo molto tempo, drammatici.

Il suddetto. Basta cosí: ho capito.

Grisostomo. In India chiamansi «natacs» i drammi; e, a detta di sir Jones, ve n’ha tanti che nessuna nazione d’Europa può ostentarne maggiore abbondanza. Sir Jones, quando viveva nel Bengala, si rivolse ad un pandito, cioè a dire ad un bramino letterato, pregandolo che gl’indicasse il piú famoso de’ loro natacs. Ed il pandito gli indicò la Sacontala di Calidasa. Calidasa è venerato nell’Indostan com’uno de’ nove sapienti che fiorirono alla corte di Vicramáditya re di Ogein, e che furono detti le «nove gemme»: reputasi comunemente che Calidasa ne fosse la piú splendida. Di lui si conosce in Europa qualche altro componimento oltre la Sacontala.

Uno de’ lettori. E in che tempo visse questo Calidasa?

Grisostomo. L’opinione di sir Jones è che Calidasa vivesse nel secolo che precedette immediatamente la venuta di Cristo. Ma alcuni dotti nelle cose asiatiche, fra’ quali mr. Colebrooke, osservando che in India il nome di Vicramáditya fu nome di vari monarchi, come in Egitto quello di Tolomeo, mossi da alcuni dubbi cronologici, sospettarono meno lontana da noi l’epoca del Vicramáditya protettore di Calidasa. Secondo essi, il poeta sarebbe vissuto un nove secoli fa. I piú per altro degli orientalisti convengono nell’opinione di sir Jones. La Sacontala, o ch’ella abbia una vecchiaia addosso di forse diciannove secoli, o ch’ella sia una fresca giovinetta di soli novecent’anni, è un componimento drammatico in lingua sanscrita (vocabolo che significa «ornata»); se non che, alcuni pochi personaggi di esso parlano qualche volta il «pracrito», che è un dialetto sanscrito piú popolare. È un componimento in versi laddove il dialogo è piú elevato, ed in prosa laddove alcuna volta è piú famigliare. Non ha, come giá vi ho detto, unitá di luogo e di tempo...

La maggior parte de’ lettori. Corbellerie! Siamo oramai persuasi tutti che di queste due unitá non debba tenersi piú conto. Date loro la buona notte una volta per sempre. [p. 143 modifica]

Grisostomo. Ma in compenso nella Sacontala troverete osservata rigorosamente l’altra unitá indispensabile, l’unitá d’azione o, come altri la chiamano, l’unitá di effetto, l’unitá d’interesse.

I suddetti. Oh! questa, si, è necessaria.

Grisostomo. Insomma la Sacontala può, per le sue forme esteriori, considerarsi simile assai ai drammi di Shakespeare.

Tutti. Viva la Sacontala! Fin qui non c’è male. E com’è diviso il dramma?

Grisostomo. Regolarmente, a creder mio. Ma non ho coraggio di dirvi che...

Tutti. Ebbene, com’è diviso?

Grisostomo. Oimè!... Di grazia, parliamo d’altro.

Tutti. No no, vogliamo saperlo.

Grisostomo. Vi basti ch’io vi dica che neppure Shakespeare ha osato divider cosí un...

Tutti. Insomma, com’è diviso?

Grisostomo. Oimè! In... In... In... In sette atti.

Uno de’ lettori. Badate che Grisostomo vi fa il torto di credervi pedanti.

Grisostomo. Io? No davvero. Ma, Dio mio! siamo in certi tempi che...

Tutti. Poveruomo! Lo sappiamo meglio di te che 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, sono tutti numeri buoni in faccia alla ragione drammatica. Cosí fossero sempre buoni anche in faccia al cassiere del lotto!

Grisostomo. Ve lo desidero, perché siete gente di garbo. Sir Jones, pratichissimo della «sanscrita» e de’ dialetti di essa, ed assistito dal suo maestro, il pandito Rámalòchan, tradusse parola per parola in latino la Sacontala, e poscia rifece quel suo lavoro in prosa inglese e lo pubblicò.

Uno de’ lettori. È stampata anche la traduzione latina?

Grisostomo. Signor no.

Il suddetto. Me ne dispiace. E chi non sa d’inglese come fa a legger la Sacontala?

Grisostomo. Si procuri la traduzione tedesca del signor Forster. [p. 144 modifica]

Un altro. E chi non sa di tedesco?

Grisostomo. Ne faccia senza.

Un altro. No, no. Cerchi la traduzione francese di monsieur Bruguière.

Grisostomo. Di questa io non parlava, perché non trovo in essa quelle bellezze che veggo nelle altre due, e che, secondo il creder mio, non possono provenire che dall’originale.

Il suddetto. A ogni modo, meglio qualche cosa che niente.

Grisostomo. Si, ma badate di non accusar poi Calidasa della noia che forse vi cagionerá monsieur Bruguière.

Molti. Tanto fa: vogliamo leggerla anche noi questa Sacontala.

Grisostomo. Avvertite per altro che per derivare diletto dalla lettura della Sacontala, qualunque sia la traduzione di cui vi serviate, vi bisogna formarvi prima una qualche idea del clima, della storia naturale, de’ costumi, della religione degli indiani; perché in gran parte le bellezze di questo componimento derivano dall’affluente freschezza delle tinte locali. Intendo per «tinte locali» quella tale modificazione d’immagini, di pensieri, di sentimenti, di stile, che è propria esclusivamente o quasi esclusivamente di quello stato di natura umana e di quel momento di societá civile che il poeta piglia ad imitare. Un popolo posto sotto di un cielo sereno, su di un suolo ridente di fiori e di frutti, un popolo a cui tutte le bellezze della natura sono eterno spettacolo, deve sentir vivamente il piacere della vita. Traendo i suoi giorni il piú all’aperto, è naturale ch’egli contempli sempre le bellezze che lo circondano e che le descriva sempre con nuovo entusiasmo; è naturale ch’ogni minuta particolaritá da lui osservata nella natura gli mantenga perpetua nell’animo una serie di sentimenti tutti in armonia cogli oggetti ch’egli vagheggia: sentimenti che vengono poi a mischiarsi con tutti gli accidenti della sua vita. L’ardenza de’ raggi del sole gli fa riporre la somma delle voluttá nella frescura dell’ombre, nella mite dolcezza del chiaro della luna, nell’aspetto de’ ruscelli, nello spirare di un’auretta consolatrice. In lui il sentimento di queste delizie è sí permanente, che informa sempre in [p. 145 modifica]qualche modo le idee concomitanti dei suoi concetti, e gli presta immagini di confronto ond’esprimere ogni altro suo godimento. Nella stessa maniera all’assenza di esse egli paragona sempre ogni sua pena. Aggiungete alla disposizione naturale l’educazione religiosa, la credenza nella metempsicosi; e cesseranno di parervi strani il rispetto e l’amore tenerissimo degli indiani pe’ fiori, per gli alberi, per gli animali, ecc., amore che spira da capo a fondo in tutto il dramma di Calidasa. Vedrete in esso altresi una certa tendenza contemplativa, della quale, come giá s’è detto nel numero 25 del Conciliatore, bisogna cercare la ragione nella vita spesso sedentaria degli indiani.

La Sacontala è un dramma di cui l’argomento unico è l’amore. Questa passione vi è descritta dal suo nascere fino alle piú miserabili delle sue sciagure, attraverso le quali gli amanti giungono finalmente ad uno stato di pacata contentezza. Nella pittura degli affetti Calidasa tenne conto di tutte quelle gradazioni dilicate che costituiscono l’amor gentile de’ popoli molto inciviliti, e delle quali non s’avvede pienamente che l’uomo conoscitore dell’uomo e innamorato un tempo anch’egli medesimo. Anche in ciò Calidasa pare Shakespeare. Ed anch’egli, a somiglianza del poeta inglese in alcuni drammi, occupa la mente ed il cuore de’ lettori col rappresentar loro la semplice successione de’ fatti, le semplici peripezie delle passioni, senza far derivare l’effetto drammatico da alcune assolute individualitá di carattere ne’ personaggi del dramma. Sacontala, Dushmanta, Canna, ecc. ecc., sono persone che nulla hanno in sé di straordinario. Non vengono innalzate al disopra del comune se non quel tanto che basta per sollevarle all’ideale poetico. Ciò che a noi le rende interessanti non è il complesso del loro carattere particolare, bensí lo stato delle anime loro, agitate da passioni comuni agli uomini in generale, ma con particolaritá di accidenti esteriori.

Lo scioglimento del dramma è operato dal concorso di una divinitá. È quindi uno scioglimento che per noi italiani ha del poco bello e che dee riescirci freddo; consideratolo per altro nelle sue relazioni col maraviglioso di religione, che domina [p. 146 modifica]per entro a tutto il dramma, è conveniente all’armonia universale del poema e proporzionato alla fantasia degli spettatori indiani. Perché il maraviglioso della Sacontala faccia effetto sull’animo de’ lettori d’Italia, fa d’uopo che questi colla fantasia loro si trasportino nei boschi sacri dell’Indostan, ed assumano in certo modo per alcun tempo le opinioni e le credenze de’ popoli devoti a Siva, a Rama, a Visnú. Tanta mobilitá d’immaginazione non è, lo so anch’io, dote comune a molti; però non sará maraviglia se la Sacontala a molti riescirá insipida e noiosa. Le persone, alle quali una squisita pieghevolezza di fantasia concederá di sentire vivamente la fragranza di questo fiore dell’India, ne sappiano grazie alla duttilitá delle lor fibre; ma sieno tolleranti altresí del contrario parere di coloro che dalla natura hanno sortito minore versatilitá d’immaginativa2. Per ultimo...

Uno de’ lettori. Benedetto quel «per ultimo»! Finiscila una buona volta.

Grisostomo. Due parole e mi sbrigo. Per ultimo ricordinsi i lettori della Sacontala di rimontare col loro pensiero ai costumi antichi dell’India, specialmente per ciò che risguarda la condizione delle donne. Questa in Europa ha migliorato dall’introduzione del cristianesimo in appresso; e nell’India, per lo contrario, dopo le conquiste musulmane ha peggiorato. Anteriori a quelle conquiste sono i tempi descritti nella Sacontala, quando l’influenza [p. 147 modifica]de’ maomettani e le massime della lor gelosia non avevano ancora rinchiuse le belle indiane ne’ zenanas, ed esse esercitavano liberamente gli uffici dell’ospitalitá, e conversavano liberamente cogli uomini, de’ quali erano considerate compagne e non serve.

Uno de’ lettori. Povere indiane! Mi fa compassione la lor servitú.

Un altro. E non meritano pietá anche i poveri uomini dell’India?

Un altro lettore. Signor Grisostomo, tu ci hai sbattuta sul muso una tantafera da far isbadigliare fino la pazienza di un bibliotecario. Le tue chiacchierate saranno una stupenda cosa; ma noi vogliamo conoscere Calidasa e non te. Non si potrebbe ottenere da V. S. un tratto da galantuomo?

Grisostomo. Vale a dire?

Il suddetto. Regalare alla tua fantesca tutti i tuoi ragionamenti, e dare a noi in qualche modo un epilogo della Sacontala?

Grisostomo. Volentieri; ma per darvelo mi bisognerá occupare con esso un intero numero del Conciliatore, e forse piú.

Il suddetto. Poco male!

Tutti. Sí, sí, l’epilogo: e sia pur lungo, non importa; contenti noi, contenti tutti.

Grisostomo. Benissimo! sarete serviti.

Un altro lettore. Intendiamoci però, signor Grisostomo, su di un punto. Ha Ella in animo di proporre agli italiani, siccome modello da imitarsi, questa sua lodata Sacontalaí

Grisostomo. Io propor la Sacontala come modello da imitarsi! Io, che non cesso mai dal raccomandare l’originalitá e la scelta d’argomenti adattati alla nostra presente condizione sociale!

Il suddetto. Eppure, certe poesie del Burger...

Grisostomo. Nel giá citato numero 25 del Conciliatore s’è parlato anche di certe poesie del Burger; ma non s’è detto, parmi, d’imitarne in Italia gli argomenti.

Il suddetto. Sí; ma in un altro libretto, prima che nascesse il Conciliatore, si sono proposti come modelli certi due romanzi, il Cacciator feroce e l’Eleonora. [p. 148 modifica]

Grisostomo. Signor mio, ha Ella avuta la bontá di leggerlo quel mio libretto?

Il suddetto. Si si, tre volte da cima a fondo. Ed è per questo che...

In quel momento una bella signora, che non aveva mai insino allora aperto bocca, si fa rossa in viso, ed, accostandosi furtivamente al signore che parla con Grisostomo, gli stringe il gomito e gli dice sottovoce:

Prudenza, mio caro, prudenza! Tienti zitto, per caritá; altrimenti il tuo credito va in fumo. Si dirá che non sai leggere e che non intendi un ette. Non è vero che Grisostomo proponesse quei due romanzi per modelli. Bada bene che tu t’inganni.

Il suddetto, ributtando Tammonizione della signora con tali modi inurbani da manifestare ch’egli n’è certamente il marito, prosegue a dire:

Sí, l’ho letto, e parlo cosi perché so quel che dico.

Grisostomo. Lo rilegga, di grazia, un’altra volta.

La signora. E poiché mio marito l’avrá riletto, spero che vorrá disdirsi d’una cosa detta da lui solo per sbaglio di memoria, del quale per altro fo io le scuse al signor Grisostomo.

Grisostomo. Ella, madama, è troppo gentile con me. Gliene rendo grazie.

La signora, conducendo via in fretta in fretta il marito, gli va dicendo all’orecchio: Quando tu leggi un libro, bada bene che le parole sono quelle nere; quando sei in compagnia d’altri, bada bene a non entrare in discorsi, perché non sei in caso di... Il resto non s’è potuto udire distintamente dall’estensore del presente dialogo.

Grisostomo.

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SACONTALA

O SIA

L’ANELLO FATALE

Dramma indiano di Calidasa

Il dramma è preceduto da un prologo brevissimo in forma di dialogo tra l’impresario del teatro ed un’attrice. Questo prologo non ha altro scopo che di annunziare la recita della Sacontala, ed è preceduto anch’esso dalla seguente benedizione pronunziata da un bramin3: — L’acqua fu l’opera prima del Creatore; il fuoco riceve le obblazioni comandate dalla legge; il sacrificio è celebrato con solennitá; i due lumi del cielo distinguono il tempo; il sottile etere, veicolo del suono, riempie l’universo; la terra è la madre naturale d’ogni incremento; e l’aria anima ogni cosa che respira. Visibile sotto queste otto forme, benedica e sostenga noi tutti Issa, il dio della natura.

ATTO I

La scena è un bosco sacro, abitato dal savio Canna e dagli eremiti suoi seguaci.


Dushmanta, re dell’India, appare sopra un carro, inseguendo a briglia sciolta un’antelope (gazella) ch’egli vorrebbe ammazzare. La belva si ripara nel bosco sacro. Esce un eremita accompagnato da un discepolo, e scongiura il re d’aver pietá di quella [p. 150 modifica]povera antelope. — O re, o eroi, le armi vostre sono destinate a salvare gli oppressi, non a sterminar gl’innocenti. — Dushmanta cede tosto al consiglio dell’eremita, e ripone nella faretra la saetta. Tanta docilitá in un monarca possente, giovine e vago di caccia è lodata gentilmente dall’eremita. — Degno è di te quest’atto, degno di te, o il piú illustre de’ monarchi, degno invero d’un principe della stirpe di Puru4. Possa tu veder crescere un tuo figliuolo che sia ornato dalle virtú e sovrano dell’universo! —

L’eremita annunzia a Dushmanta che nel bosco si sta per celebrare un sagrifizio; ed, invitatolo ad intervenirvi, si ritira. Prima di metter piede nell’asilo degli eremiti, Dushmanta si spoglia degli ornamenti reali. — Ne’ boschi — dic’egli — consacrati alla religione bisogna entrare con vestimento piú umile... Eccomi nel santuario. Il braccio destro mi pulsa. Che nuova prosperitá mai vuol promettermi questo augurio? —

Egli sente voci femminili; va spiando; vede alcune fanciulle recare acqua per ristoro de’ loro arboscelli; le contempla, e gli paiono piú amabili assai delle belle donne della sua corte. Sacontala, accompagnata dalle due ancelle ed amiche, Anusuya e Priyamvada, va a versare acqua sui fiori ch’ella ha prediletti. La soave bellezza di lei mette rapidamente in tumulto il cuore di Dushmanta. — Qui — dic’egli, — qui mi nasconderò dietro quest’albero, onde mirar tutte le leggiadrie di Sacontala, e non iscemare nell’anima di lei la confidenza. —

Sacontala, credendosi sola, prega le compagne perché le sciolgano il fermaglio del mantello che le comprime di troppo il seno. Allora nuove bellezze sfolgorano al guardo dell’appiattato monarca, e in lui la passione s’aumenta. Il dialogo delle fanciulle parla della vaghezza de’ fiori, della dolcezza de’ loro profumi, degli amori delle piante; e vi sono frammischiati paragoni tra Sacontala e quelle delizie. Dushmanta, anch’egli, tra sé e sé ne fa di consimili; ed ogni detto spira gentilezza di sentimenti dilicatissima.

La fresca mallica5 s’è sposata all’amra6, soavissimo degli alberi. Il madhavi7, pianta sopra tutte diletta a Sacontala e ch’ella chiama «sorella sua», ha messo fiori intempestivi dalla radice alla [p. 151 modifica]sommitá. — Portenti questi — dicono le ancelle, — che fanno sperare vicine le nozze a Sacontala. —

Un’ape, lasciato il fiore della mallica, ronza intorno al volto di Sacontala. La vergine coll’agitar della mano tenta di togliersi d’innanzi quell’insetto importuno. Dushmanta osserva l’industria ingenua di Sacontala, e fa confronto tra la grazia de’ movimenti di lei e le studiate maniere delle donne della sua corte. Quanta maggior venustá in Sacontala! — Fortunata ape! — esclama egli. — Tu tocchi la coda di quel bell’occhio tremante; tu ti accosti al lembo di quell’orecchio; tu vi susurri dolcemente, come se bisbigliassi un segreto d’amore; e, mentre ch’ella agita la leggiadra sua mano, tu voli a sugger miele da que’ labbri che contengono il tesoro d’ogni diletto. Io qui fra’ dubbi miei mi consumo del desiderio di sapere di qual famiglia ella nasca; e tu intanto, fortunata ape, ti vai godendo un piacere che per me sarebbe la suprema delle venture. —

Sacontala si volge alle compagne perché la soccorrano a liberarsi dall’ape. — Noi noi possiamo — rispondono. — Dushmanta8 solo può liberarti. Egli solo è il protettore di questo santuario. — All’udirsi nominare, Dushmanta vorrebbe uscire del nascondiglio e palesarsi. Ma, pensato alcun poco, mette freno al suo desiderio. — Meglio è ch’io venga innanzi a lei non come re, ma come semplice straniero che cerca ospitalitá. —

L’ape non cessa di ronzare. Sacontala procura di scansarla, fuggendo lontano alcuni passi; ma, perseguitata tuttavia, grida: — Soccorso, soccorso! Chi mi salva da questa sciagura? — Dushmanta non sa piú contenersi, e, sbalzando fuor dell’albereto, si presenta alle donne. Sparita l’ape, Anusuya e Priyamvada usano a lui le accoglienze prescritte dall’ospitalitá, gli offrono frutti e fiori e lavacri pe’ suoi piedi, e molli foglie di septaperna su cui riposarsi.

Sacontala, nel mirare Dushmanta, sente una segreta emozione che non le pare in accordo colla santitá del luogo. La voce e [p. 152 modifica]le parole del re fanno piú violenta quell’emozione. Intanto le ancelle entrano in discorso con lui, e con onesta preghiera gli dimandano chi egli sia. Ed egli, voglioso di celare la propria dignitá:

— Io son uno che medita sui sacri Vedas9; abito nella cittá del nostro re, che discende da Puru; ed intento all’esercizio dei doveri religiosi e morali, qui sono venuto per contemplare il santuario della virtú. — Poi, interrogando egli le fanciulle, chiede loro come esser possa che Sacontala sia figliuola di Canna, da che quel savio eremita doveva avere rinunziato ad ogni legame terreno. Anusuya quindi gli palesa che Sacontala non è figliuola di Canna, bensí di Causica, principe della famiglia di Cusa, sovrano e, ad un tempo stesso, uno de’ savi dell’India; che la madre di lei fu una ninfa; e che la povera Sacontala, rimasta orfana e sola, fu raccolta da Canna, che la educò e le tenne luogo di padre.

Queste novelle rallegrano il cuore a Dushmanta. Ma un fiero dubbio gli attraversa tuttavia la mente. — Forse Canna, seguendo le regole degli eremiti, avrá destinata la fanciulla ad una perpetua verginitá. — Interrogate le ancelle, e udito da esse come Canna abbia data intenzione di voler maritare Sacontala ad uno sposo pari a lei, Dushmanta si ritira in disparte ed esclama: — Esulta, esulta, o cuor mio! Ogni dubbio è rimosso. A ciò che prima avresti temuto come fiamma, or puoi accostarti come a gemma preziosa. —

La verginale modestia di Sacontala mal soffre i lunghi discorsi delle compagne sue col re. Ella s’alza e sta per andarsene. In virtú d’un accordo pattuito tra Priyamvada e Sacontala, quest’ultima aveva obbligo d’innacquare altri due arboscelli. Però Priyamvada, giovandosi di tale pretesto, cerca di trattenerla. Pare al re che in veritá Sacontala sia stanca; e, cavatosi di dito un anello, lo dá a Priyamvada, pregandola che quello serva a scontare il lavoro dovuto a lei da Sacontala. Il nome di Dushmanta è inciso sull’anello. Le donne si guardano l’una l’altra maravigliate. Dushmanta, volendo pur sempre tenersi incognito, dice loro di non badare a quell’inezia, cara a lui per altro come dono del re. — Non privartene dunque — gli risponde Priyamvada; — la tua sola parola vale a scontare il debito di Sacontala. — E, ridato a lui l’anello, si rivolge a Sacontala, dicendole ch’ella debb’essere grata allo straniero, e può andarsene a posta sua. [p. 153 modifica]

Ma Sacontala non sa piú risolversi alla partenza. Il re vede l’indugiare ch’ella frappone, e tra se stesso esclama: — O ch’ella sente per me quel ch’io sento per lei; o che la gioia mi fa uscir di me stesso. Ella non dirizza a me una parola; ma, se parlo io, sta coll’orecchio teso per ascoltarmi. Innanzi a me non è padrona d’un menomo suo atto, e gli occhi non li sa volgere che a me solo. —

S’odono di dentro voci di lamento, perché sieno interrotti i riti degli eremiti. I seguaci di Dushmanta, coi cavalli, cogli elefanti, col traino, con tutta la caccia, hanno invaso il bosco sacro. Dushmanta n’è dolente. Le donne, sbigottite dal frastuono de’ sopravegnenti, s’inchinano a lui e muovono verso la capanna degli eremiti. Sacontala studia nuove ragioni di dimora e fa lento, piú ch’ella può, il suo passo. — Aimè — grida — aimè! Un subito dolore mi piglia al fianco. Aimè! che non mi reggo al cammino! — Le compagne la rincorano perché s’affretti. Ed ella: — Oimè! il piede mio è ferito da un gambo acuto d’erba cusa10. Oimè! il lembo della veste mi s’è appiccato a un ramo di curuvaca11. Fermatevi, datemi aiuto. — Finalmente ella parte, sorretta dalle compagne e mandando indietro lunghi sguardi a Dushmanta.

Egli, rimasto solo, mette sospiri, pensando alla beltá di Sacontala: — E non dovrò piú rivederla! Ah, no! Cercherò i servi miei; qui... qui intorno fermerò il mio campo. Non so cessare dal diletto di rimirarla. E come potrei volgere ad altro i miei pensieri? Il corpo mio muovesi e va innanzi; ma questo cuore irrequieto corre indietro verso di lei, a guisa d’una leggiera foglia di canna, che, portata in cima a un bastone incontro al vento, svolazza sempre in direzione opposta. — Parte anch’egli.


ATTO II

Pianura e padiglioni reali al lembo della foresta sacra.

Il re intima che per quel dí cessi la caccia, onde non profanare i luoghi santi. Seduto poscia a’ piè d’un albero con Madhavuya, l’amico suo, parla di Sacontala, dell’amor che ne sente, [p. 154 modifica]della bellezza di lei, del desiderio di farsela sposa, del dolore di non poter quel dí stesso chiedere a Canna le nozze della pupilla, perché Canna è lontano. E, mentre che studia di trovar qualche scusa per rientrare nel bosco sacro, due giovinetti eremiti chiedono udienza. Entrati a lui: — Canna — gli dicono — Canna, la nostra guida spirituale, è assente; e intanto alcuni dèmoni cattivi disturbano la pace del sacro eremo. Accorri, o re, a proteggerci. — L’invito non può cadere piú opportuno all’amante. Sta per secondarlo; quand’ecco venir dalla regina, madre di lui, un ambasciatore. Il digiuno solenne è vicino. La madre chiama alla corte per quell’occasione il figliuolo. Che fará egli? Ubbidirá? Ma... e la cara Sacontala? Dopo un volgere di vari consigli tra sé e sé, stabilisce di condiscendere alle preghiere degli eremiti, e d’inviare Madhavuya alla madre, ond’egli assista al digiuno solenne, tenendo le veci del re ed iscusandolo presso lei del non venire. Teme per altro che costui sveli alla regina i segreti amorosi che gli ha confidati; ed affettando maggiore serietá: — Non creder nulla — gli dice — di quanto ti narrai di Sacontala. Fu una favola inventata da me per ispassarmi. Non entro per altro nella foresta se non perché mi vi conduce riverenza degli anacoreti. La fanciulla d’un eremita, educata fra le antelopi, non è cosa degna di me. Non creder nulla; non credere. Addio; fa’ il dover tuo. Intanto io corro... in soccorso degli uomini santi. — Partono tutti.



ATTO III

Romitaggio nell’interno del bosco.

Per opera del re, nel bosco sacro è ritornata la calma. Un giovinetto, recando un fastello di erbe pel sacrificio e meditando sulle cose vedute, manifesta la propria ammirazione: — Quanto è grande il potere di Dushmanta! Eccolo appena metter piede nel bosco; eccolo vibrare una sola saetta; ecco disperse tutte le nostre calamitá. —

Esce Dushmanta. Ha l’aspetto d’uomo travagliato dalla passione d’amore. Esprime in un lungo soliloquio le pene dell’anima sua: — ... Ah! per me non v’è pace, salvo che nel rivedere l’amica mia. Il meriggio è cocente; di certo ella verrá colle sue compagne a ristorarsi sotto quest’ombre, in riva a questo ruscello. Di certo [p. 155 modifica]l’amica mia si nasconde in qualche parte di questi fioriti boschetti. Ecco le orme de’ suoi piedi eleganti; eccole qui sulla sabbia; e le sono orme stampate di fresco. Eccola, eccola; la delizia dell’anima mia siede colle sue ancelle sovra un sasso liscio liscio e tutto cosperso di fiori recenti. — Còlto dalla timidezza, l’amante s’arresta; poi si nasconde dietro alcuni frascati, e non cessa mai dal contemplare la cara donna, e n’ode tutti i discorsi.

Sacontala è oppressa da un’angoscia segreta. Una febbre ardente par che le scorra per le vene. Meste le ancelle procacciano di prestarle ristoro. Dushmanta la rimira. — Oimè! — dice in disparte — oimè! quale sará la cagione fatale della sua febbre? Che fosse mai vero ciò che il cuore mi suggerisce? Amor forse? Misera! la sua fronte è riarsa, il suo collo è appassito, la sua persona è piú smilza che prima, le spalle le cadono di languore, scolorata è la sua carnagione; ella pare un cespo di madhavi, a cui secca le foglie un vento infocato. Ma, benché trasformata di tanto, ell’è pur sempre bella e consola sempre l’anima mia. —

Anusuya e Priyamvada interrogano amorosamente la vergine sulle cagioni de’ mali ond’ella è oppressa. A loro non sembra vero che quelli provengano dal solo caldo eccessivo della stagione. Sacontala, vinta dalle preghiere di quelle pietose, confessa i segreti del suo cuore. — Fin dal primo momento in cui vidi quel leggiadro principe che or ora tornò a quiete la sacra foresta, fino da quel momento gli affetti miei furono rivolti tutti a lui irreparabilmente; e quindi sono io ridotta in questo languore. — Continua il dialogo tra Sacontala e le ancelle; ed ogni parola di lei la manifesta innamorata e tremante del futuro. Dushmanta ode, e la gioia si diffonde per l’anima sua!12. Non sa piú contenersi: abbandona il nascondiglio dei frascati, e corre alla fanciulla, e le giura inviolabile amore13. È dubbiosa Sacontala e quasi non crede. Ed egli: — O di tutte le cose tu la piú cara al cuor mio, tu che con lo splendore nereggiante de’ begli occhi mi fai estatico, deh! parla piú mite... M’uccidono le tue parole. In mezzo alle delizie ed alle molte femmine del mio palazzo, due soli saranno gli oggetti [p. 156 modifica]delle cure mie: la terra cinta dal mare sulla quale io impero, e Sacontala, l’amica mia. —

Dopo i giuramenti del re, le ancelle, mendicate alcune scuse, destramente si ritirano e lasciano libertá agli amanti. La vergine. trovandosi sola con un uomo, diventa timida oltre l’usato, china gli occhi, accusa di tradimento le compagne, e vorrebbe partire anch’ella. Dushmanta gentilmente le si oppone. Ed ella: — Lasciami, lasciami andare, te ne scongiuro. Oh destino mio infelice! — Il re la lusinga tuttavia, e la rattiene afferrandole la fimbria del mantello. Ed ella: — Figlio di Puru, serba, deh! serba la tua ragione. — Qui ha luogo una scena di galanterie, di sospiri, di oneste repulse, di desidèri, d’astuzie amorose, ma decenti, ecc. ecc.; e tutto finisce con un bacio che l’amante furtivamente stampa sulle labbra all’amata. Sopravviene in quel mezzo Guatámi, la matrona guardiana di Sacontala. La fanciulla, intimorita, prega l’amante a nascondersi. Egli obbedisce. Il giorno cade. Guatami persuade a Sacontala di ritirarsi alla capanna; e la fanciulla, docile all’invito, tiene dietro ai passi della matrona; ma il cuore le piange di doversi separare dall’amante.

L’atto ha termine con un soliloquio di Dushmanta, il quale, riandando i momenti passati, si duole d’essere stato troppo timido, ed intanto si pasce delle dolci memorie14 che in lui destano il sasso su cui sedeva Sacontala, i rami del vetasas che formavano come una pergola sul capo di lei, la foglia di ninfea ch’ella teneva nelle mani, ecc. ecc. ecc.


ATTO IV

Pianura innanzi alla capanna.
Anusuya e Priyamvada vanno cogliendo fiori.

Anusuya. O Priyamvada! E vero, l’amica nostra è felice: s’è maritata, è vero, secondo i riti d gandharvas15 ad uno sposo pari a lei per dignitá e per meriti. Eppure il cuor mio non è senza angustie per amore di Sacontala, e mi tormenta un dubbio... [p. 157 modifica]

Priyamvada. E che dubbio è il tuo, Anusuya?

Anusuya. Questa mattina, compiute le mistiche cerimonie, i nostri eremiti pieni di gratitudine diedero commiato al re. Egli se n’è ito alla capitale, ad Hastinápura16, dove, circondato da cento donne, ne’ recessi del suo palazzo, chi sa se ancora serberá memoria della leggiadra sua sposa?

Priyamvada. Datti pace: non temer nulla. Confida nell’onore d’un uomo gentile ed educato alla sapienza...

Ma un altro timore suggerisce a Priyamvada: — Canna è tuttavia lontano: nulla sa del matrimonio di Sacontala. Quando tornerá dal suo pellegrinaggio, che dirá egli? L’approverá? — Pare ad entrambe che sí; e continuano a raccogliere fiori per adornare i templi della dea delle nozze.

Intanto l’iracondo Durvasas, uno degli uomini santi dell’India, a cui la povera Sacontala, occupata da tutt’altri pensieri, trascurò di far le dovute accoglienze, grida terribilmente: — E che? Tu non rendi ossequio ad un ospite? Ebbene, ascolta la imprecazione mia. Quegli a cui meditativa tu stai pensando, quegli a cui ora è rivolto interamente il cuor tuo, quegli per cui trascuri una pura gemma di divozione che ti cerca ospitalitá, quegli, sí, quegli, a guisa d’uomo che, tornato sobrio, dimentica le parole pronunziate nell’ubbriachezza, non si ricorderá piú di te, non ti riconoscerá piú, allorché tornerai al suo cospetto. —

Anusuya corre per placare l’ira dell’uomo santo e gli si getta a’ piedi; ma né preghiere né lagrime lo muovono interamente a pietá. Però risponde: — La parola mia è irrevocabile. Ma l’incantamento creato da essa andrá disciolto affatto, allorquando lo sposo mirerá l’anello posto da lui in dito alla sposa. — Dushmanta infatti, prima di partire, aveva dato a Sacontala un anello con incisovi sopra il proprio nome. Quindi le donne si consolano, perché veggono facile il modo di distruggere l’incantamento. Sacontala, tutta assorta nelle idee amorose, nulla sa [p. 158 modifica]dell’imprecazione. E nulla gliene dicono le compagne sue, per non atterrirla: — Sarebbe un versare acqua bollente sui fiori della tenera mallica. —

L’incantamento dell’uomo santo comincia ad avere effetto. Dushmanta non torna e non manda tampoco messaggi. Sacontala è nel dolore. Le compagne di lei s’accorgono ch’ella è incinta. Canna è tornato. Con che cuore manifestargli lo stato della pupilla sua?

Fortunatamente una voce del cielo ha avvertito Canna delle nozze di Sacontala col re. I desidèri del savio eremita sono compiuti. Traendo buon augurio dai segni d’un sacrificio, egli delibera d’inviare la sposa allo sposo. Sacontala viene incoronata di fiori e sparsa di profumi. Le ninfe silvestri le hanno preparati gli ornamenti nuziali. Le ancelle apprestano le sontuose vesti a Sacontala; e, intanto che la stanno abbellendo, piangono la vicina partenza di lei, che piange in lor compagnia. Canna ordina il sacrificio solenne, e piange anch’egli, e manda voti di felicitá e benedizioni sul capo della sua cara Sacontala.

Piene di tenerezza sono tutte le parole dell’addio. Un coro invisibile di ninfe prega felice il viaggio a Sacontala, cantando: — Sulla via ch’ella sta per correre venga compagna di lei la prosperitá. Propizi venticelli spargano intorno, per delizia di lei, la polve odorosa de’ piú bei fiori. Stagni di limpide acque,, verdeggianti per le foglie della ninfea, le apprestino frescura nel suo viaggio; e rami ombrosi la difendano dai raggi infocati del sole. —

Sacontala. M’è dolce il pensiero di dover rivedere lo sposo mio; si, m’è dolce... Eppure il piede mi vacilla nell’abbandonare questo bosco, questo asilo della mia giovinezza.

Priyamvada. Oh! non sei giá mesta tu sola. Or che il momento della tua andata è vicino, mira qui come ogni cosa è afflitta! L’antelope non istá piú brucando intorno al mucchiarello d’erba cusa. La paonessa non balla piú sul prato. Gli alberi del bosco lasciano cader pallide sul terreno le loro foglie; non hanno piú vigore, non hanno piú bellezza17.

Sacontala. Padre mio venerando, contèntati ch’io parli a questo madhavi, i di cui fiori rubicondi infiammano il bosco.

Canna. So, figliuola mia, quanto l’ami. [p. 159 modifica]

Sacontala, abbracciando il madhavi: O la piú radiosa delle piante, ricevi l’amplesso mio e me lo rendi colle tue flessibili braccia. Da questo dì innanzi, benché lontana, sarò pur tua sempre. O padre, abbiti cara questa pianta; considerala come un’altra me stessa.

Canna. La tua amabilitá, o figliuola, ti ha procurato uno sposo che ti somiglia. Questo evento fu lungamente il desiderio piú vivo dell’anima mia. Ed ora che in me la sollecitudine per le tue nozze è finita, avrò cara questa tua pianta prediletta e la mariterò all’amra che manda fragranze vicino ad essa. Va’, figliuola mia; pónti in viaggio.

Sacontala, accostandosi alle ancelle: Dolci amiche, questa pianta di madhavi sia un prezioso deposito nelle vostre mani.

Anusuya e Priyamvada. Ahi! ahi! E di noi chi avrá cura? Piangono entrambe.

Canna. Sono superflue le lagrime, o Anusuya. La nostra Sacontala ha bisogno d’essere rinvigorita dal nostro coraggio, e non giá d’essere intenerita dai nostri lamenti.

Sacontala. Padre, allorché quella povera antelope, che or cammina lenta lenta pel peso de’ suoi portati, gli avrá partoriti, mandami un messaggio cortese che me l’annunzi salva e vispa. Non dimenticartelo, te ne scongiuro.

Canna. Carissima mia, sta’ certa, noi dimenticherò.

Sacontala muove il passo, poi s’arresta. Chi m’afferra il lembo della veste? Chi mi rattiene? Si volge e guarda.

Canna. È il tuo figlio adottivo; è il cavriuolo giovinetto, quello la di cui bocca tu tante volte medicasti di tua mano col salutifero olio dell’ingudi18, quando gliel’avevano piagata le cime acute dell’erba cusa quello che tante volte fu pasciuto da te con una manata di grani di syamaka. Vedilo: or non vuole scostarsi dalle pedate della sua protettrice.

Sacontala. Perché piangi, povero cavriuolo? Perché piangi per me, cui bisogna abbandonare il nostro comune domicilio? In quella stessa maniera con cui ti allevai io quando appena nato perdesti la madre, con quella cura stessa provvederá a te il padre mio quando saremo separati. Vanne, povera creatura, vanne: è necessitá il separarci. Ella dá in un gran pianto. [p. 160 modifica]

Canna. Le lagrime tue non si convengono, o cara, al momento presente. Fa’ cuore. Ci rivedremo, ci rivedremo ancora. Pon’ mente alla strada innanzi a te, e sieguila. Quando ti sta gonfia la lagrima sotto la bella palpebra, raccogli l’animo tuo e sforzati di frenare l’impeto primo ch’ella fa per iscoppiare. Nel tuo viaggio su questa terra, ove i sentieri or sono alti or bassi, e ’l sentiero buono rade volte è conosciuto, le orme de’ passi tuoi di necessitá saranno ineguali; ma la virtú ti spignerá innanzi dirittamente.

Anusuya trae in disparte Sacontala, ed abbracciatala: — Ogni cuore — le dice, — ogni cuore, amica mia, in questo sacro asilo pende da te; e il dolore della tua partenza li percuote tutti. Osserva la sciacravaca19. Senti la compagna sua che lá, mezzo nascosta tra le foglie della ninfea, lo sta chiamando. Ed egli non le risponde; ma, lasciate cascar dal becco le fibre d’un gambo di loto da lui pelato, ti guarda fiso fiso, con una pietá infinita. —

Continuano gli abbracciamenti, i pianti, le savie ammonizioni di Canna a Sacontala. Partita la quale, una malinconia taciturna pon fine all’atto.


ATTO V

Il palazzo reale di Hastinápura.

Dushmanta non si ricorda piú di Sacontala. Riposandosi alcun poco dalle cure dell’impero, ode una canzone che parla di affezioni dimenticate. L’armonia di quel canto è mesta. Egli diventa mesto; ma non ne sa indovinare la cagione. — E perché dunque mi viene sull’anima tanta malinconia in udire un semplice canto che rammenta i lontani, se davvero non so d’essere diviso da oggetto alcuno dell’amor mio? L’aspetto della bellezza, le melodie soavi inducono talvolta a malinconia gli uomini per altro felici. Chi sa? Forse è una malinconia che proviene in essi da qualche languida memoria di gioie passate; forse è l’ultima traccia di alleanze contratte in una esistenza anteriore. — Siede pensoso ed afflitto. I bramini, inviati a lui da Canna colla sposa, cercano udienza: sono intromessi. Durante la cerimonia del ricevimento Sacontala, [p. 161 modifica]velata il volto, trema incerta dell’esito. — Che donna è quella? La beltá sua splende in mezzo agli anacoreti siccome un bocciuolo fresco che verdeggia tra foglie ingiallite e passe. Ma non le togliete il velo. Ella pare essere incinta; e neppure io re deggio mirare in volto la moglie d’un altro. —

I bramini gli annunziano che quella è Sacontala, la sposa legittima di lui. Stupisce il re: gli pare strano che gli si parli di nozze. — Che favola è questa mai?. — È levato il velo a Sacontala. Dushmanta la rimira, confessa che è bella; ma non la riconosce. — Per quanto io mediti, non mi ricordo d’avere sposata costei. Né io darò luogo mai nella mia reggia a donna che porti in seno la prole altrui. —

Sacontala gli rammenta il bosco sacro, gli amori, le nozze contratte. E quegli niega ogni cosa. — Ebbene, ti mostrerò l’anello che m’hai donato col nome tuo. — Ella si cerca su’ diti l’anello. — Aimè, sventurata! Non ho piú l’anello. — È cascato dal dito; lo ha perduto. La misera si dispera; narra altre circostanze che precedettero gli sponsali. — Falsitá tutte! — grida il re — falsitá femminili!

Sacontala, irritata. Uomo vuoto d’onore, tu misuri dal tuo perfido cuore il mondo intero. Tu sotto il manto della religione e della virtú altro non sei che un vile ingannatore. Somigli ad un abisso profondo, il cui orlo è coperto da ridenti arboscelli.

Dushmanta... O giovinetta, a tutti è noto il cuore di Dushmanta; e qual sia il tuo, lo palesano i tuoi modi presenti.

Sacontala, con ironia. A voi tutti, o monarchi, bisogna prestar cieca fede sempre. Voi siete i savi; voi sapete appieno qual rispetto si debba alla virtú ed alla razza umana. Per quanto modeste, per quanto virtuose sieno le donne, nulla sanno esse, nulla dicono mai di vero. In buon punto sono io qui venuta a cercare l’oggetto degli amori miei. In buon punto la mano d’un principe strinse la mia. Col miele delle sue parole la stirpe di Puru vinceva la mia confidenza; ed intanto il suo cuore celava il pugnale che doveva trafiggermi.

La povera Sacontala non ha ancor finito di dire, che, copertosi il volto, dá in uno scoppio di pianto20.

Persiste il re nel ricusare di accogliere siccome sposa Sacontala. I bramini dichiarano che Sacontala è moglie di lui secondo [p. 162 modifica]la legge, che il ripudiarla o ’l ritenerla sta in poter suo, che la podestá del marito è senza limiti, e che però eglino abbandonano a lui la donna, e se ne ritornano al bosco sacro.

Sacontala. Questo perfido m’ha ingannata; e voi pure, amici miei, voi pure mi abbandonerete? E siegue supplichevole i bramini che partono.

Uno de’ bramini. Donna! tu vedi quali sieno i delitti di tuo marito; brami tu d’esser libera? Sacontala s’arretra inorridita e trema.

Altro bramino. Se il re dice il vero di te, che ragione hai tu di lamentarti? Ma, se tu sei conscia a te stessa della purezza dell’anima tua, conviene che tu rimanga a servire come ancella nella casa del signor tuo. Sta’ dunque ove sei... A noi è d’uopo andarcene.

Dushmanta. È vano lusingarla con isperanze. Traetela pure con voi, o anacoreti... La moglie altrui è donna da cui bisogna astenersi.

Il gran sacerdote di corte, interrogato da Dushmanta, propone di ritenere egli presso di sé Sacontala fino al termine della gravidanza. — Gli astrologi hanno vaticinato, o re, che tu abbia ad esser padre d’un principe illustre, i cui domini non avranno altri confini che i mari dell’oriente e dell’occidente. Or bene, se questa figliuola dell’uomo di Dio partorirá tale fanciullo che da’ piedi e dalle mani dia manifesti segni di vasta sovranitá, io renderò omaggio a lei siccome a mia regina, e la condurrò alle stanze reali. Altrimenti, ella tornerá al padre suo. —

Il re acconsente. E ’l sacerdote mena seco la misera, che altro non fa che piangere, e pregar la terra «dea clemente, perché si apra e la raccolga nel suo seno».

Poco dopo torna il sacerdote, e proclama un miracolo. — Gli anacoreti erano partiti. Sacontala singhiozzava, e, protendendo le braccia, piangeva la sua trista fortuna. Quand’ecco una massa luminosa in forma di donna scendere vicino all’Apsarastirtha, fonte dove s’adorano le ninfe del cielo, ed abbracciar Sacontala, e sparire con lei in un attimo. —

Dushmanta sente nell’anima un’agitazione. Ma l’incantamento dura tuttavia. Egli medita sul passato; eppure nessuna reminiscenza gli si richiama al pensiero d’avere conosciuta mai la figlia dell’anacoreta. [p. 163 modifica]


ATTO VI

Strada.

L’anello nuziale era stato perduto da Sacontala nell’attigner acqua ad un pelaghetto vicino a Sacravatara. Un pescatore d que’ luoghi, nello sventrare un grosso rohita còlto un di nella rete, gli rinvenne fra gli interiori quel gioiello, e pensò di trarne danaro. Stava appunto vendendolo; quando alcuni ufficiali di palazzo, messo l’occhio su lui, lo sospettano tagliaborse, lo legano e, ad onta delle discolpe ch’egli adduce, ad onta de’ giuramenti suoi, lo vengono traendo prigione.

Uno degli ufficiali parte recando al re l’anello, e lascia intanto che i suoi compagni custodiscano il meschino, che trema della propria vita.

Torna quell’ufficiale: ordina che sia posto subito in libertá il pescatore. — Il re ha avuto carissimo l’anello; al vederlo gli si commosse l’anima repentinamente. Parve che quel gioiello gli richiamasse alla mente una persona diletta. Il pescatore sará ricompensato con larghi doni. —

Giardini del palazzo.

Appare nell’aere la ninfa Misracesi; e dal discorso di lei si raccoglie ch’ella è la protettrice di Sacontala. Due ancelle del dio dell’amore stanno ragunando fiori per una festa sacra. Sopravviene l’anziano de’ ciamberlani, ed intima loro di desistere dallo scavezzar tanti steli di fiori: il re è afflitto, e per quell’anno non vuole giubbileo.

Una delle ancelle. Dolce è per noi l’obbedire al signor nostro... Ma, se ci è lecito il chiederlo, perché mai il re proibisce la solita festivitá?

Il ciamberlano. E non sapete dunque dell’infausta perdita di Sacontala?

Una delle ancelle. Sí, sappiamo;... e dell’anello inoltre venuto in mano del re.

Il ciamberlano. Poco adunque mi resta a dirvi. Quando al rimirare la propria gemma tornò la memoria al re, egli die’ [p. 164 modifica]subito in questo grido: — Sí, l’incomparabile Sacontala è sposa mia legittima; ed io ero al tutto fuori di senno allorché la ributtai. — E mostrò segni evidenti d’estremo cordoglio e di pentimento. Da quell’istante i piaceri della vita gli sono in odio; la mente sua è stravolta; non dice parola che non sia un delirio; chiama col nome di Sacontala qualsiasi donna gli venga innanzi; e per lo piú siede vergognoso, col capo sulle ginocchia.

Entra Dushmanta vestito a penitenza. Ogni parola sua è l’emanazione del dolore. I circostanti s’industriano di sviarlo dal suo pensiero affannoso. Non giova: egli non dá ascolto; par che abbia in animo d’imprendere un lungo viaggio. Voltosi poscia all’amico suo: — O Madavuya — gli dice, — quando persone accusate di gravi delitti mettono in chiaro tutta la loro innocenza, mira di che modo sono puniti i loro accusatori! Una frenesia m’aveva tolto la memoria...: quell’anello fatale me l’ha restituita. Vedi con che lagrime di pentimento piango la perdita della diletta mia, che rifiutai senza ragione! Vedimi fatto gramo e oppresso dall’ambascia! Eppure la bella stagione è questa della primavera, che col suo ritorno riempie tutti i cuori altrui di gioconditá: tutti, ma non il mio. —

E ciò che piú lo addolora è il pensare ai patimenti della povera anima di Sacontala. L’amico tenta ogni via di consolarlo. È vano ogni conforto. La ninfa protettrice di Sacontala ode, non veduta, i sospiri del re; s’accorge della veracitá del di lui pentimento, e ne gioisce, e comincia a sentirne pietá anch’ella.

In obbedienza ai voleri di Dushmanta, un’ancella s’ingegnò di dipingere sovra una gran tela l’immagine di Sacontala. Recano al re quel ritratto. Allora nella fantasia di lui si riaccendono piú che mai tutte le memorie amorose. Sta contemplando la pittura, e parla fra sé e sé, e geme miseramente. Non è contento del lavoro, e dá ordine che sia migliorato; ma tuttavia non sa finir di mirare quella pittura.

La ragione del re è perturbata da un delirio. Ogni oggetto che gli cade sotto l’occhio gli richiama alla mente la crudele ripulsa data a Sacontala. Il rimorso è immenso. Il cordoglio gli opprime l’anima. Vede un’ape dipinta sul quadro, ha paura che indiscreta voli sulla bocca a Sacontala, dá nelle smani21 e, e parla all’ape,´� [p. 165 modifica]e la minaccia, affinché non osi contaminare le labbra della donna bella. Madhavuya rammenta al re che quell’ape non è viva e ch’altro non è ch’una pittura. — Crudele! — risponde egli. — E perché rammentarmelo? Io mi godeva l’aspetto della donna dell’anima mia; e tu che bisogno avevi, o crudele, di farmi avvertito ch’ell’è una pittura? —

I lamenti di Dushmanta sono interrotti da alcuni ministri reali, che vengono ad interrogare la volontá di lui intorno a cose pubbliche di gran momento. Chiamato ad esercitare l’ufficio regio, il re raccoglie l’animo ed emana decreti savi. Il cuor suo è inclinato ad una beneficenza inusitata. — Chiunque d’ora innanzi rimarrá orfano troverá in Dushmanta un padre amoroso. A chiunque perderá alcuno de’ suoi congiunti verrá in soccorso Dushmanta, e terrá luogo egli de’ defunti22. — S’intenerisce, torna al delirio, prorompe in un pianto dirotto, e sviene.

La ninfa, contenta del pentimento di Dushmanta, corre a consolare Sacontala. Un tumulto dietro la scena scuote il re dalla sua prostrazione. È Madhavuya, l’amico suo, che grida d’essere rapito da un cattivo genio ed implora soccorso. Il re si leva in armi e libera l’amico. Mátali, auriga del dio Indra, aveva finto quel rapimento, onde provocare ad ira il re e toglierlo cosi all’acerbitá della sua afflizione. Mátali per ordine celeste intima a Dushmanta di andare a sconfiggere i figliuoli di Calanèmi, i dèmoni Danavas, giganti indomiti. — Tu dèi salire sul carro d’Indra. Vieni meco; io stesso ti condurrò alla battaglia. — Il re obbedisce; monta sul carro e parte.


ATTO VII

Dushmanta e Mátali nel carro del dio Indra.
(Si suppone ch’eglino sieno al di sopra delle nubi).

I fieri dèmoni, che muovevano assalto al trono del dio Indra, furono vinti e dispersi da Dushmanta. Indra ha ricompensato il vittorioso, facendoselo sedere a destra ed esaltandolo al cospetto [p. 166 modifica]di tutti gli abitatori dell’empireo. — Sorrideva — dice il re, — sorrideva il dio in veggendo lo stesso suo figliuolo Jayanta stargli tacito accanto ed agognar per sé quell’onore; e profumava intanto il mio seno colle fragranti essenze del sandalo23 celeste, e cingeva il collo mio d’una ghirlanda di fiori cresciuti in paradiso. —

Mátali. Mira, o re, il coro del tuo trionfo tornarsene alla vetta de’ cieli. Lieti i geni hanno còlto dalle piante della vita i bei colori della porpora e dell’azzurro..., e stanno ora scrivendo i tuoi fatti in versi degni del canto degli dèi.

Mátali rende conto a Dushmanta delle qualitá de’ luoghi aerei pei quali viaggiano, tornando dal cielo all’India; e, mentre che il dialogo prosiegue, il carro viene approssimandosi alla terra.

Dushmanta. Rapida, benché impercettibile, è la scesa de’ corsieri celesti. Ecco lá, ecco la stanza degli uomini. Oh vista maravigliosa ! È tuttavia lontana tanto da noi, che le basse pianure paiono confuse con le alte cime delle montagne. Gli alberi sollevano le ramose spalle, ma par che non abbiano foglie. I fiumi sembrano striscie lucenti, ma non se ne veggono i flutti. Ed ora, ecco ecco, par che il globo della terra sia spinto in su da qualche forza miracolosa24.

Mátali. Oh come è bella l’abitazione de’ mortali!

Dushmanta. Che monte, o Mátali, che monte è quello lá, che come nube vespertina versa larghe acque consolatrici e forma un’aurea zona tra i mari d’oriente e que’ d’occidente?

Mátali. È il monte de’ Gandharvas, chiamato Hemacuta... Ivi in beata solitudine con la sua sposa Aditi siede Casyapa, padre degli immortali e rettore degli uomini.

Dushmanta prega Mátali di condurlo alla sede del dio che governa il mondo, onde possa rendergli omaggio ed adorarlo da vicino. Mátali seconda quel pio desiderio. Eccoli scendere entrambi al santuario e chiedere del dio. Casyapa è ritirato ne’ segreti alberghi della sua reggia. Mátali entra per annunziargli la venuta di Dushmanta; e questi intanto siede all’ombra d’un albero, aspettando. Gli pulsa il braccio destro25. — O braccio mio, perché [p. 167 modifica]mi lusinghi tu con un vano augurio? La felicitá per me è finita; non mi rimane che la miseria. —

A un grido messo da alcune donne, Dushmanta si rivolge e, maravigliando, vede un bel fanciullino scherzare con un lioncello, ed aggrappargli senza paura la giubba, e tirarselo dietro vigorosamente.

Dushmanta. Ah! perché il cuor mi s’innamora di quel fanciullo come se fosse figliuolo mio?... (Medita un pezzo). Me infelice! non ho figli... E questo pensiero mi lacera l’anima.

Le donne che custodiscono il fanciullo fanno di tutto perch’egli lasci in libertá il lioncello: — La lionessa ti sbranerá, o incauto, se ad essa non lo rendi. — Il fanciullo si ride della minaccia. Gli vien promesso un bel dono, se mette in libertá il lioncello; ed egli stende la destra in atto di riceverlo. Dushmanta gli osserva la palma della mano, e vi scopre segni d’impero. Sente che quella creatura gli è cara, e sospira pensando alla consolazione d’un padre nel recarsi sulle ginocchia i suoi figliuoletti e pargoleggiare con essi; consolazione che egli piú non ispera. Le donne, facendosi piú vicine al re, stupiscono nel trovar tratti sul volto di lui somiglianti in estremo a que’ del fanciullo, e nel veder che questi, altero cogli altri, con Dushmanta è tutto mansuetudine. Il re interroga le donne sulla condizione di quel fanciullo, e a poco a poco viene ad intendere che è stirpe di Puru, che ha per madre la figliuola d’una ninfa e che il padre di lui ripudiò la sposa. E, mentre che il re chiede ansioso qual sia il nome di codesta sposa reale, il fanciullo, udendo una donna parlar del «saconta-lavanyam»26, crede che si parli di tutt’altro, e grida: — Sacontala, Sacontala! dov’è la madre mia, dov’è? —

Finalmente è caduto dal braccio al fanciullo un amuleto, dono di Casyapa. Era tale la virtú di quell’amuleto, che si trasformava in serpente e mordeva qualunque mortale osasse raccoglierlo dal suolo: il padre solo e la madre di chi ’l portava potevano toccarlo impunemente. Dushmanta non sa nulla di ciò: lo ha giá toccato; lo stringe in mano; non è serpente, non morde. Le donne riconoscono dunque in lui il padre del fanciullo, e gli narrano quanti altri avesse giá offeso l’amuleto. Quindi partono liete, per far nota a Sacontala quell’avventura. [p. 168 modifica]

Sopravviene tosto Sacontala in veste lugubre, coi capegli annodati in una sola treccia, che le scorre lunga lunga giú per le spalle. La sua faccia è sparuta; negli occhi suoi è il dolore.

Dushmanta. Ti ho trattata crudelmente, o cara. Ma l’amore piú caldo è sottentrato alla crudeltá mia. Sovvengati di me; e mi perdona.

Sacontala. Sarò interamente felice quando cesserá l’ira del re.

Dushmanta. Una nube, una malia mi aveva oscurata la memoria. La caritá de’ celesti finalmente mi ti riconduce innanzi, o amabilissima fra le creature.

Sacontala. Il re sia sempre...27 E non può profferire la parola «vittorioso» e dá in un subito pianto.

Dushmanta. Dimenticati, o cara, della mia crudele ripulsa. Mettila in bando dalla memoria. Fu una frenesia violenta che mi vinse l’anima. Cosi, quando prevale il buio di una illusione, non giova santitá d’intenzioni; cosi un cieco, se la mano d’un amico gli cigne il capo d’una corona di fiori, la crede una serpe, e stolto se la strappa dal crine. E le si getta a’ piedi.

Sacontala. Sorgi, o sposo; deh! sorgi. La felicitá mia fu interrotta gran tempo. Ma tu m’ami; ed ecco in me l’affanno dar luogo alla gioia.

Poi lo sposo rasciuga di sua mano le lagrime sul volto alla sposa, e se la serra al seno, e le narra dell’anello trovato, ecc. ecc.

S’apre il fondo della scena, e vedesi Casyapa sedere in trono conversando con Aditi. Gli dèi accolgono benignamente gli sposi; li benedicono; consolano Dushmanta col dichiararlo innocente in faccia a Sacontala del ripudio, da che tutto provenne dall’incantamento di Durvasas; predicono le glorie future del figliuolo di Sacontala; fanno che Dushmanta lo riconosca per suo; inviano a Canna uno spirito, nunzio dell’evento; e, svelati cosi tutti i misteri, comandano che gli amanti e ’l fanciullo salgano sul carro d’Indra, onde tornar felici sulla terra a vivere lunghi anni di pace nella splendida Hastinápura.

Note

  1. Qui si parla di quella poesia che è arte ispirata dal bisogno e dal sentimento del bello; non giá di quella poesia naturale, cosí detta dal Vico e da altri filosofi, la quale consiste nel fingersi favole di dèi o di spiriti credendole vere, e fondando cosi l’idolatria; nel credere che i corpi fisici, alberi, nuvole, ecc. ecc., sieno animati; nel parlare per interiezioni, suoni imitativi, ecc. ecc.
  2. La mitologia indiana in Calidasa è come la mitologia greca in Omero. Si gusta ne’ poemi d’Omero la mitologia greca: può dunque gustarsi anche la mitologia indiana nel dramma di Calidasa. Entrambi questi poeti hanno scritto cose conformi a’ lor tempi: basta saper trasportarsi a’ lor tempi per poterle gustare. E il farlo sarebbe egualmente facile sí coll’uno che coll’altro, se la mitologia indiana ci fosse nota quanto la greca. Ma per la stessa ragione, ripetuta giá piú volte da piu d’uno, che la mitologia greca ne’ moderni riesce fredda, riescirebbe fredda anche l’indiana, adoperata sul serio da un europeo, quantunque in parte tuttavia viva nell’India. Ho creduto opportuna questa nota per ridire un’altra volta che le mitologie, o spente o appartenenti a popoli che nulla hanno di comune colla nostra civilizzazione, si possono bensí gustare negli scrittori che vissero sotto l’influenza di quei sistemi mitologici; ma che i moderni europei debbono astenersi dal ricopiarle come se in Europa ci si credesse, come se ancora influissero religiosamente sopra di noi.
  3. Pare da ciò che presso gl’indiani i divertimenti teatrali fossero, come presso i greci, una specie di riti sacri. Si è tradotta la benedizione non come un tratto di poesia da poter fare effetto in Italia, ma come una bizzarra curiositá. Ne’ greci e ne’ latini vi ha pur molte e molte particolaritá che per noi sono insipide, appunto come la benedizione del bramino.
  4. Puru, uno de’ piú famosi tra gli antenati di Dushmanta.
  5. «Mallica», forse il «nyctanthes sambac» (Linneo).
  6. «Amra», albero d’alto fusto e vaghissimo pe’ suoi fiori.
  7. «Madhavi», «ipomea quamoclit» (Linneo).
  8. La vivace fantasia degli indiani popolava di dèi, di dèmoni, di spiriti, ecc. tutta la natura. E però sotto le sembianze di quell’ape le fanciulle sospettavano forse nascosto qualche demone malefico. E che nella persona del re fosse la possanza di contrastare a siffatti dèmoni lo vediamo in vari luoghi del dramma; specialmente quando gli anacoreti invocano il soccorso di lui, e quando lo stesso dio Indi a manda lui a combattere contro i dèmoni «Danavas».
  9. Vedas sono i quattro libri del codice sacro degli indiani.
  10. «Erba cusa», «poa cynosuroides» (Linneo).
  11. «Curuvaca», pruno, quasi sempre fiorito.
  12. La consolazione di Dushmanta può paragonarsi a quella che prova Romeo nella scena II dell’atto II della tragedia Romeo e Giulietta di Shakespeare.
  13. Qui nel dramma vedesi un tratto di galanteria che sente del francese. Sacontala improvvisa un couplet amoroso; e Dushmanta si presenta tosto a lei, improvvisandone un altro in risposta.
  14. Questo soliloquio somiglia a quel sonetto del Petrarca che incomincia:
    Sennuccio, i’ vo’ che sappi in qual maniera.
  15. «Gandharvas», uno de’ nomi che gl’indiani danno alle schiere celesti o sia geni buoni, chiamati altrimenti «dewla». Gl’indiani hanno otto diverse maniere di nozze. Quelle secondo i riti de’ gandharva s sono le piú clandestine, e nondimeno legittime come tutte le altre. Celebransi senza cerimonie. Basta il mutuo consentimento degli sposi e lo scambiarsi ch’eglino fanno tra di loro d’una corona di fiori, d’un anello o d’altro, ecc.
  16. Hastinápura, cittá che in séguito fu chiamata Delhi. Secondo altri, è l’odierna Hassanabad.
  17. Questa mestizia della natura per la partenza di Sacontala somiglia, in certo modo, a quella che presso Teocrito accompagna la morte di Dafni.
  18. «Ingudi», probabilmente il «sesamum orientale» (Linneo).
  19. «Sciacravaca», uccello acquatico che gli inglesi chiamano «oca de’ bramini».
  20. I conoscitori delle passioni terranno conto di questo passaggio dall’ironia al pianto dirotto. Coni’ è pieno di veritá!
  21. Se i lettori si ricorderanno dell’ape che molestò Sacontala nell’atto primo, loderanno l’accorgimento di Calidasa nell ’immaginare il delirio presente.
  22. Badino i lettori gentili a questo miscuglio d’amore e di caritá del prossimo, sentimenti affini.
  23. «Sandalo»: «santalum album» (Linneo).
  24. Nel poema di Dante e nel King Lear di Shakespeare mi sovviene d’aver trovati alcuni passi rivali in bellezza a questo di Calidasa nel descriver le cose vedute dall’alto al basso in una gran distanza.
  25. Nell’atto primo abbiamo veduto come Dushmanta sentisse uguale pronostico.
  26. L’uccello «saconta-lavanyam» è una specie di pavone.
  27. «Il re sia sempre vittorioso». È il saluto di formalitá col quale in tutto il dramma gli amici del re si accostano a lui. Qui, in bocca di Sacontala, è come parola di pace.