Trattatelli estetici/Parte prima/VIII. Il sentimento e l'espressione

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Parte prima - VIII. Il sentimento e l'espressione.

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Parte prima - VIII. Il sentimento e l'espressione.
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VIII.

IL SENTIMENTO E L’ESPRESSIONE.

Sono molti, anzi troppi, i quali credono, che non siavi differenza alcuna fra i sentimenti che provansi da ciascun uomo in particolare, e l’espressione in forza della quale que’ sentimenti si fanno pubblici, e divengono universale proprietà della specie umana. Questi molti, anzi troppi, sono quelli che nei lavori d’arte sogliono non altro considerare che l’intenzione, e quando trattisi dello scrivere, e più specialmente della poesia, ripetono quella vecchia ciancia: doversi badare al pensiero, lo stile non essere che la veste, la quale, per quanto elegante o inelegante si voglia, non altera le proporzioni della persona da cui viene indossata. Da questa similitudine usitatissima comincia di già a farsi noto quanto inesattamente si giudichi dello stile, il quale, nonchè dirsi la veste, sarebbe poco il chiamarlo la carne, che forma parte essenziale della persona.

Finchè parliamo di semplici sentimenti non abbiamo che una parte dello scrittore, e quella parte di esso in cui più si accomuna col più degli individui della sua specie. Guai per la razza umana se la squisitezza dei sentimenti dovesse essere proprietà accordata in particolare [p. 333 modifica]agli scrittori! V’è anzi un’ultima squisitezza di sentire, che dall’arte dello scrivere non può essere ricopiata per guisa alcuna. Aveva ragione quel critico francese nei cui precetti rettorici si legge potersi far incetta sul mercato di figure oratorie assai più effettive ed acconcie che nel foro. Ponete mo’ la penna in mano ai garzoni o alle rivendugliole del mercato? Ovvero fate che ciò ch’esse espressero di presente nel bollore della passione, ve lo ripetano a mente riposata? Troverete la loro eloquenza esserne ita iu fumo, quando pure non risorga alla narrazione il calore dell’affetto. Ecco il primo spazio onde sono separati gli scrittori dalla universalità degli altri uomini, il potere cioè rendere permanente nelle opere loro, e col mezzo dell’arte, ciò che in altri momenti è istantaneo, e derivante da sola natura. Ancora que’ primi perdono di evidenza, e però di efficacia, a ogni poco che sia mutata la condizione degli uditori, quando l’arte dello scrivente rende sensibile i pensieri di lui ad una sfera di persone molto più ampia e variata.

Se da un lato bastasse il solo sentimento a darci un autore ne avremmo, a così dire, in ogni uomo, che non fosse di quelli affatto sprovveduti d’animo impressionabile; e per altra parte, se pochi veggiamo esser quelli cui ragionevolmente si convenga il titolo d’autori, ciò vuol dire che il rendere durevolmente sensibili agli [p. 334 modifica]altri le commozioni del proprio animo è dono accordato dalla natura a quelli tra’ suoi figli che volle privilegiare. Oltrechè vuolsi avvertire non essere le passioni proprie cui lo scrittore sia in obbligo ad ogni ora di ritrarre, bensi doversi egli far interprete di tutte quante esser possono quelle d’altrui. Di che ne segue che il dire d’uno scrittore che egli ha un forte sentire non significa ciò che per le stesse parole s’intenderebbe d’ogni altro uomo. Il sentire d’ogni uomo si riferisce a quanto gli è individuale; quello dello scrittore all’arte cui deve maneggiare. Certo la cupezza dei sentimenti della corte neroniana, divinamente ritratta da Racine nel Britannico, non era propria di quel poeta come uomo, ma soltanto come artefice di tragedie.

Tutto questo discorso, che certamente riesce scipito e superfluo per tutti coloro che sonosi fatto un giusto concetto dell’arte di rappresentare col mezzo della parola le proprie passioni e le altrui, si fa necessario in un tempo in cui molta parte di quelli, che non trattano le lettere per vocazione, ne parlano pure per ozio e per arroganza. Trovarono uua maniera assai comoda di chiacchierare di cose che domandano disposizioni d’animo e studii, essi che non hanno nè questi nè quelle, col negare la loro importanza: simili a chi, inetto per fiacchezza di membra a portare le ferrce armature de’tempi cavallereschi, dicesse essere inutile a que’ tornea[p. 335 modifica]menti quelle tanto gravose armature. La stoltezza poi di quegli scrittori, i quali, ad ogni ancorchè minimo ribollimento di umori, si credono predominati dallo spirito della Sibilla per vaticinare il futuro (ed è credibile ch’altro non abbiano i loro carmi del sibillino fuorchè la rapina e la dispersione che ne fa il vento); quella stoltezza dico egregiamente era sferzata dal Gozzi, nel sermone all’abate Martinelli, coi seguenti versi, che trascrivo a rincalzo e ornamento di questo articolo.

     Ecco, in principio alcun sente nell’alma
     Foco di poesia. Sono poeta,
     Esclama tosto: mano a’ versi; penna,
     Penna ed inchiostro. E che perciò? vedesti
     Mai, Martinelli mio, di tanta fretta
     Uscire opra compiuta? Enea non venne
     In Italia si tosto, e non si tosto
     11 satirico Orazio eterno morso
     Diede agli altrui costumi. I’vidi spesso
     Della caduta neve alzarsi al cielo
     Castella e torri, fanciullesca prova
     Che a vederla diletta: un breve corso
     Del sol la strugge, e non ne lascia il segno.
     Breve fu la fatica, e breve dura.