Orlando innamorato/Prefazione

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Prefazione

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PREFAZIONE


L’edizione moderna più autorevole dell’Orlando Innamorato del Boiardo, è senza dubbio quella pubblicata dal Panizzi a Londra nel 1830-31; ma in essa accanto a pregi indiscutibili i critici riscontrano gravi difetti1. Anzitutto l’illustre erudito italiano non potè valersi nè del codice trivulziano, di cui dirò tra poco, nè delle prime stampe, ma lavorò sopra edizioni, la più antica delle quali è del 1513; poscia nel fissare il testo seguì criteri ora di gretta fedeltà, ora di eccessiva larghezza, che non possono essere accettati dalla critica odierna.

Per la squisita gentilezza della marchesa Luisa di Soragna Melzi io ho potuto avere tra mano l’unico esemplare che si conosca, della prima edizione del poema (1487); e con pari cortesia il principe Trivulzi [p. iv modifica] mi ha conceduto di studiare a mio agio il codice da lui posseduto, preziosissimo e per la sua antichità e perchè unico a noi noto del poema boiardesco. Su di essi, e insieme su la edizione del 1506, che ci dà per prima l’intero poema, io ho fondato la mia; perciò è necessario che di questi tre testi sia data notizia agli studiosi.

Il capolavoro del Boiardo fu pubblicato la prima volta in Venezia, coi tipi di Piero de Piasi, nel 1486,2 e questa edizione comprende solamente i due primi libri, sebbene i sessanta canti di essi sieno distribuiti in tre. Il duca Melzi acquistò dal libraio Marchini di Modena l’unico esemplare che si conosca; ma dovette farlo restaurare, perchè i primi fogli ed altri nel corpo del volume erano guasti per l'umidità.

Fu descritto accuratamente dal Venturi, da Melzi e Tosi, dal Graesse, dal Brunet: ed io, tolta la correzione della data e di una svista circa le ottave mancanti, non ho nulla da aggiungere alle notizie date da que’ valentuomini. Dirò invece che codesta edizione ha un grandissimo valore rispetto alle successive, per essere la sola eseguitasi vivente il poeta; il quale per altro dimorò troppo breve tempo in Venezia nell’inverno del 1485,3 sì che si possa credere abbia avuto parte diretta nel prepararla.

Ed invero essa non va immune da gravissimi [p. v modifica] difetti. Lasciando stare che nel canto ventunesimo del primo libro sono state omesse per errore di stampa le ottave 44-46, e la penultima nel ventesimosettimo del libro secondo; non c’ è canto nel quale non si riscontrino in una certa copia errori d’ogni fatta, gravi e leggeri: vocaboli storpiati, espressioni che non danno assolutamente senso, omissioni, parole inutili, trasposizioni errate, versi ipermetri o sbagliati. La lingua poi ha assunto per opera dello stampatore una tinta venezianeggiante, e la grafia è del tutto arbitraria e troppo lontana da quella seguita dal poeta in altre sue opere stampate o manoscritte.

Non è improbabile che il poema sia stato stampato la seconda volta in Scandiano, da Pellegrino de Pasquali, nel 1495, pochi mesi dopo la morte dell’autore4. Infatti le edizioni posteriori, a partire da quella del 1513, riproducono quasi tutte una lettera di Antonio Caraffa, in data 16 maggio 1495, al giovine figlio del Boiardo, Camillo, ed un epigramma latino dello stesso, nei quali si accenna in modo non dubbio a un’edizione scandianese dell’Innamorato. Ma fu essa realmente eseguita? A dir vero, la lettera e l’epigramma ci permettono di asserire soltanto che tale edizione era disegnata, e d’altra parte non se [p. vi modifica] ne conosce alcun esemplare. Uli stessi compilatori del Giornale dei letterati, nel 1713 non poterono argomentarla che dai citati documenti5, ed i bibliografi posteriori, come lo Zeno, il Tiraboschi, il Mazzuchelli, l’Hain, il Venturi, il Panizzi, Melzi e Tosi, il Graesse, il Brunet niun argomento nuovo recarono per convalidare siffatta opinione, se non quello che appunto nel 1495 Pellegrino de Pasquali stampava in Scandiano, ad istanza di Camillo Boiardo, una traduzione delle «guerre dei Romani» di Appiano, e nel 1500 il Timone dello stesso Matteo Maria. Io, pur non tenendo conto dell’autorevole testimonianza di Scipione Maffei, il quale afferma di aver veduta una edizione «in foglio, del millequattrocento, fatta in Reggio o forse in Scandiano6,» nè dà alcun’altra indicazione, dico parermi impossibile che di un’opera cosi celebrata (son conosciute le lettere d’Isabella d’Este al Boiardo vivente) s’aspettasse dodici anni dopo la morte del poeta a dare un’edizione compiuta.

Aggiungerò che nel marzo del 1505 Nicolò Agostini otteneva dal senato veneto il privilegio di stampa [p. vii modifica] per il suo «fin de tati i libri de lo innamoramento de Orlando», cioè per il quarto libro, che fu poi stampato (o ristampato) l’anno successivo, insieme coi tre del Boiardo7. È chiaro adunque che il terzo libro in quell anno doveva essere già divulgato, e divulgato, secondo ogni probabilità, per le stampe. Infine l’edizione del 15OG non dice che ivi il terzo libro si stampi per la prima volta. Io credo adunque che o nel 1495 o in quel torno, si sia fatta un’edizione del poema in tre libri8: anzi mi piacerebbe ravvisare in codesta sollecitudine del figliuolo il desiderio di compiere, almeno in parte, la volontà paterna: dedicare l’Innamorato ad Isabella d’Este, come pare ormai accertato che fosse intenzione del Boiardo vivente9.

Segue la edizione fatta da Giorgio de Rusconi in Venezia, nel 1506, di cui l’unico esemplare noto (appartenente già allo Zeno) è posseduto dalla Marciana. Essa si avvantaggia su quella del 1486, perchè [p. viii modifica] ha le ottave mancanti ed il terzo libro, lasciato a mezzo dal Boiardo, e corregge molti degli errori che deturpavano la precedente; inoltre presenta alcune varianti non prive di importanza: ma conserva con fedeltà scrupolosa parecchi degli svariati errori, altri ne introduce di nuovi; nè in essa appare di molto attenuata la tinta venezianeggiante della lingua, od è più genuina la grafia.

Ma del poema boiardesco abbiamo il prezioso manoscritto trivuiziano, che mi preparo a descrivere. Il codice10 consta di fogli 164 in pergamena, cuciti insieme (fuorché gli ultimi quattro) in quadernetti di dieci ciascuno e regolarmente numerati da mano posteriore. Anche la ricca legatura, in pelle rossa con fregi d'oro, è molto più recente. li poema comincia al recto del primo foglio e termina al recto del 159°: gli altri sono bianchi; l' ultimo incollato sulla guardia. Ogni foglio, di cent. 29x20, reca quattordici ottave; la prima lettera della prima ottava di ciascun canto [p. ix modifica] è omessa, e c’è uno spazietto vuoto per la miniatura che doveva fregiarla. Il secondo libro segue immediatamente al primo, e c’è appena lo spazio per iscrivervi il titolo: cosi il terzo al secondo. In fine di questo si legge «fine del secondo libro», e subito dopo l’ultima ottava del terzo la parola «finis», sempre della stessa mano di chi ha ricopiato il poema.

Dalla prima all’ultima facciata non si riscontra la più lieve differenza quanto al carattere: identico è pure il modo di lineare il foglio, di disporre le ottave e le lettere iniziali di esse. Non ci ha dubbio che il codice fu scritto non solo da una stessa mano, ma tutto di un fiato: e poiché le ultime ottave dell’Innamorato furono composte nell’estate del 1494, codesta copia del poema non può essere stata preparata molto innanzi a quella data.

Si può anche aggiungere senza tema di errare che o fu fatto per incarico, o doveva passare per le mani di qualche cospicuo personaggio, e che (come appare dall’ottimo stato di conservazione) non servì certo a nessun compositore per la stampa.

Il codice contiene i primi sessanta canti del poema, distribuiti, come nelle edizioni posteriori, in due libri, più i nove canti del terzo. Vi si leggono le ottave 44-46 del canto XXI del primo libro, e la 61 del canto XXVII del libro secondo, omesse per errore di stampa nella edizione del 1486. È omessa invece (come nella edizione del 1506) la penultima ottava del libro secondo, opera probabilmente dello stampatore, in cui si promette la continuazione del poema. In esso non [p. x modifica] sono moltissimi degli errori che deturpavano le due edizioni citate, ma se n’è introdotto qualche altro; ha inoltre alcune varianti11. E scomparsa pure la vernice di veneziano che alterava il testo offerto dalle stampe, il quale presenta invece le caratteristiche di quella lingua ibrida, oscillante tra il toscano, l’uso latino e il linguaggio della regione, che si venne formando in Italia sul cadere del quattrocento presso alcune corti italiane.

Il codice fu reputato autografo fino ai nostri giorni12 ma tale certamente non è, come mi accingo a dimostrare.

Fra le molte lettere del Boiardo, sparse negli archivi di Modena, di Reggio, di Mantova, e ripubblicate in occasione del centenario della morte del poeta,13 ve n’ha qualcuna scritta indubitatamente di suo pugno. Tale è, per esempio, la prima delle due lettere al duca di Ferrara in data 6 agosto 148414. [p. - modifica] [p. xi modifica] Ora chi confronti la scrittura di essa con quella del codice, della quale do anch’io un saggio15 (e la cosa è agevole, perchè il fac-simile della lettera è inserito nel volume citato in nota), parmi che non possa restare perplesso: chi scrisse la lettera, non può, ancorché siasi studiato di essere nitido, avere scritto il codice. E nemmeno tra le molte lettere scritte nel 1494 dai segretari del Boiardo (lettere che ho collazionate io stesso o fatto collazionare colla scrittura del codice, riprodotta fotograficamente) ce n’è una che rassomigli per il carattere a quest’ultimo; sicchè, come nulla si può dire circa il trascrittore, così, quanto all’età del codice, non si può far altro che fissare i termini cronologici entro i quali fu ricopiato. Tali termini sono per una parte (come si è visto) il 1494 e per l’altra il 1505: parendo strano che di un poema stampato già due, e probabilmente tre volte, ed essendo già da dodici anni morto l’autore, alcuno pensasse a trarre una copia manoscritta16. [p. xii modifica]

Ma quali rapporti intercedono tra il codice (che designerò colla sigla T) e le due edizioni del 1486 e del 1506, che, dalle biblioteche in cui si conservano gli unici esemplari, chiamerò rispettivamente Ml e Mr?

Quasi in ogni canto della edizione del 1486 ricorrono, come ho accennato, molti e svariati errori, alcuni dei quali sono riprodotti con mirabile rispondenza nel codice. E badiamo: non si tratta di forme le quali, dato l’ibridismo della lingua usata dal Boiardo e le incertezze di grafia e di morfologia che la caratterizzano, potrebbero ricevere una spiegazione: ma di veri e propri svarioni, di errori che turbano gravemente o distruggono affatto il senso, come scriveva per serviva (vol. I, pag. 97, v. 18), amor per ancor (id., 179, 16), insigne per insieme (id., 231, 23 ), fontana per fortuna (id., 388, 11), patre per parte (vol. II, 25, 11), altiera per il tira (id., 44, 6), cotanta per contato (id,, 116, 1), discortese per sì cortese (id., 401, 1) ecc.17.

Molte altre volte invece l’errore di Ml appare corretto nel codice;18 il quale a sua volta ha un [p. xiii modifica] piccolo numero di errori (su per giù una cinquantina) di cui l’edizione va immune. Cito pianto per piato (vol. I, 24, 13), palapino per paladino (id., 36, 17), dun chiaro per don Chiaro (id., 66, 8), Girone per girone (id., 282, 32), Onde per ode (283, 9), Fabricano per fabricato (vol. II, 66, 6), Più per Poi (id., 353, 25), udendo per volendo (id., 514, 11).

Finalmente tra il codice e la stampa (come è agevole vedere dalle note che ho poste a piè di pagine del testo) sono notevoli varianti.

Esaminiamo ora l’edizione del 1506, che ho designata colla sigla Mr. Essa riproduce molto spesso gli errori comuni a Ml e T19, qualche volta li corregge (II); ha pure errori e qualche lezione sua propria (III e IV). In quei casi poi nei quali Ml e T non s’accordano insieme, e l’uno di essi ha un errore che l’altro corregge, ovvero recano una lezione diversa, Mr, pur rimanendo più fedele a T, s’accorda anche talvolta con Ml, sì che potremmo suddividere quelle tre serie, di errori (V e VI), di correzioni (VII ed Vili) e di varianti (IX e X) in due altre ciascuna, a seconda che Mr segue o la stampa (V, VII, e IX) od il codice (VI, Vili e X)20. [p. xiv modifica]

Mr ci presenta insomma, senza alcuna regolarità, ma saltuariamente, per tutti i canti dei poema, o l’uno o l’altro dei dieci casi qui esemplati:

(I) Che occise Almonte e il suo fratel Troiano
(al monte, Ml, Mr e T).
(II) (Mr) Solo il girone ad alto fo servato
(giorno, Ml e T).
(III) (Ml e T) Così prese larengo quel barone
(largento, Mr).
(IV) (Ml e T) Che medici ni aveva e più persone
(li, Mr).
(V) (T) Benche il partito vide aspro e malvaso
(E benche, Ml e Mr).
(VI) (Ml) E sopra de lor duo sempre abondaua
(E sempre, Mr e T).
(VII) (Ml e Mr) De altro che rose hauea le brache piene
(branche, T).
(VIII) (Mr e T) Sero in eterno a te sempre tenuto
(obligato tenuto, Ml).
(IX) (Mr e Ml) Veduto ebbe sua schiera sbaratata
(gente, T).
(X) (Mr e T) DSe di me prima la ui giongie Orlando
(E di me prima se. Ml).

Fissate cosi nettamente le fattezze dei tre testi che ci stanno davanti, cerchiamo di stabilire, per via [p. xv modifica] di induzione, quali rapporti di parentela intercedano tra essi.

Una ipotesi ci si affaccia subito alla mente, come più ovvia: Ml, T e Mr provengono da un codice, autografo od apografo (X), a cui più tardi si aggiunse il terzo libro. Ma questa ipotesi, diciamolo subito, se spiega gli errori comuni ai tre testi, non ispiega affatto gli errori propri soltanto di T e Mr. Tali errori evidentemente non erano in X, perchè ne è immune Ml, che riproduce con iscrupolosa esattezza tante altre dozzine di spropositi: ora è possibile che T e Mr si sieno causalmente incontrati negli stessi errori? Che si sieno trovati d’accordo perfino nell’omettere, per errore, lo spazio bianco che doveva segnare nell’uno e nell’altro il passaggio dal canto XXIV al XXV della parte seconda? Identità di errori presuppone identità di origine, onde T e Mr devono prevenire da uno stesso testo (Y), e questo testo a sua volta deve avere stretta parentela con Ml, cioè o proverrà esso pure da X, o sarà esemplato su Ml. Avremo cioè l’uno o l’altro dei seguenti schemi:

Così si spiegano gli errori comuni ai tre testi, e quelli comuni a T ed Mr: ma non si spiega ancora, [p. xvi modifica] data la fedeltà dei trascrittori nel riprodurre il testo che avevano innanzi agli occhi, come mai ci possano essere errori comumi ad Ml ed Mr, e non a T, o comuni ad Ml e T, e non ad Mr: meno ancora si spiega come mai ora Mr accetti una lezione di Ml contro T, ed ora T una di Ml contro Mr.

Per ispiegar questo, conviene ammettere che Y porti, per dir cosi, in se stesso le ragioni di codesta contaminazione, e in tal caso Y non può essere che un testo ritoccato dal Boiardo. È noto infatti che il poeta passava le sue scritture agli amanuensi, i quali le ricopiavano in pulito21; che aveva l’abitudine di correggere talvolta i propri scritti anche dopo averli fatti ricopiare22; che la sua scrittura era, per confessione stessa di lui23, difficile da leggere, e che infine ei disegnava appunto negli ultimi anni di pubblicar nuovamente il poema dedicandolo, come si è detto, ad Isabella24. Di queste correzioni o ritocchi, fatti, poniamo, non del tutto accuratamente, scritti colla calligrafia poco chiara del poeta, e collocati sui margini, tra verso e verso, su pezzetti di carta intercalati ai fogli, i copisti ora tennero conto, ed ora no: di qui l’accordo di Mr ora col testo primitivo, [p. xvii modifica] rappresentato da Ml, ora con T, e viceversa l’accordo di T ora con Ml, ora con Mr, sì riguardo agli errori e sì riguardo alle varianti. Di qui anche la maggiore uniformità di T con Mr che con Ml25.

Resta a vedere se Y fu esemplato su X, ovvero su Ml, in altre parole su un testo stampato o sopra uno manoscritto. Qui necessariamente si va innanzi un un po’ a tentoni, colla speranza, non colla certezza di intoppare la via diritta.

La natura degli errori rilevati non è tale che essi possano attribuirsi ad uno stampatore piuttosto che ad uno il quale scriva 26; onde niuna luce viene da essi. Osserverò piuttosto essere strano che il Boiardo si facesse a correggere un testo stampato, la cui ortografia doveva parergli così diversa da quella ch’egli soleva seguire ne’ suoi scritti, e del quale avrebbe quindi dovuto mutare grandissimo numero di parole. Io credo più probabile che egli correggesse un testo [p. xviii modifica] manoscritto, e che perciò Y sia una copia in penna, non di mano del Boiardo (che troppi sono gli errori di cui formicola), ma tratta, direttamente o indirettamente, da un autografo X, e recante correzioni autografe. Si avrebbe insomma questo albero genealogico:

Esso spiega come ci siano errori comuni a tutti tre, o a due soltanto dei testi; spiega come uno qualsiasi di essi si accordi con un altro nell’accettare una lezione non accolta dal terzo; come il testo si mostri assai più corretto in Mr e T che non in Ml, e come ci sia più stretta somiglianza tra Mr e il codice, che non tra Mr e la prima edizione27.

Naturalmente il mio ragionamento vale per i primi due libri; quanto al terzo, che si leggeva la prima volta in Y, noterò che T ed Mr presentano pressapoco [p. xix modifica] lo stesso fenomeno: hanno cioè qualche errore comune e qualcuno particolare, nonché qualche variante28; evidentemente provengono da un unico testo, recante correzioni o ritocchi del Boiardo; T per altro è in generale più corretto di Mr, anche quanto alla grafia.

Fermate queste conclusioni, esaminiamo sommariamente le successive ristampe del poema, le quali si arrestano alla metà del secolo, sottentrando poi, per dir cosi, ad esse i rifacimenti del Berni (1541; e del Domenichi (1545).

Della edizione di Venezia. Giorgio de Rusconi, 151129, si conosce un solo esemplare: quello citato nella Biblioteca Heberiana, (Londra, 1834-36. parte I. n.° 959), che passò dopo la morte del Panizzi nel Museo Britannico. Essa è condotta sulla Veneziana del 150630, ma vi sono corretti alcuni errori di stampa più grossolani, quali lo spostamento di una mezza ottava in lib. II, c. XIV, st. 52 e la mancanza dello spazio bianco, che doveva segnare l’intervallo tra i canti XXIV e XXV del secondo libro31. [p. xx modifica]

Segue l’edizione di Milano, Leonardo Vegio, 1513, di cui si conoscono tre esemplari: uno nel Museo Britannico, uno nella Nazionale di Firenze, oggi smarrito, ed il Marciano, che io ho collazionato. Essa non è, come credeva il diligentissimo Zeno32, a cui appartenne quest’ultimo, la riproduzione della stampa veneziana del 1606, ma di quella del 1511, da lui ignorata; ricorre infatti in ambedue un grossolano errore tipografico, per cui tra il VI e il VII canto del terzo libro, manca qualsiasi materiale distinzione. Va per altro notato che l’accordo tra l’una e l’altra non è perfettissimo: vi si riscontra qualche leggera variante, e alcuno degli errori comuni ai tre testi da me studiati, incomincia ad essere corretto. Dico alcuno, che la maggior parte, anche di quelli più lievi, come accesa per acceso, scriveva per serviva, amor per ancor, cavaletto per canaletto ecc., ci tornano innanzi. Se ne può dedurre che l’affermazione dell’editore, di aver tratti fedelmente dall’emendatìssimo exemplare i tre libri del poema, è bugiarda: le correzioni, e così le varianti, sono dovute probabilmente a chi ricorresse la stampa.

Il poema si vorrebbe pubblicato di nuovo a Milano, nel 1518, ad istanza di un Nicolò da (longonzola; ma evidentemente si tratta di un errore.

Infatti l’unico esemplare che si conosca, esistente nel Museo Britannico, e descritto dal Panizzi33, altro non è che un esemplare della edizione milanese citata [p. xxi modifica] più sopra (comprendente anche il quarto libro, opera dell’Agostini), a cui sono stati appiccicati il quinto libro e fine de tutti li libri dell’Innamorato di Raffaele da Verona, ed un poemetto il quale non ha nulla che fare coll' Innamorato34, ambidue stampati a Milano nel 1518. Il Panizzi stesso non esitò a credere di avere realmente tra mano un esemplare della edizione milanese del 1513.

Seguono altre edizioni, descritte tutte quante dai citati biografi. Eccole in ordine di tempo:

Venezia, Nicolò Zoppino e Vincenzio compagni, 1521. È la prima eseguita dallo Zoppino; io non l'ho potuta esaminare, ma il Tosi a cui appartenne l’unico esemplare noto (passato poi nella biblioteca privata del marchese Girolamo d’Adda, ed ora esulato, credo, in Inghilterra), assicura che le due successive del ’28 e del ’32 (33) «corrispondono perfettamente» ad essa. Dirò qui adunque che la edizione del ’28 da me esaminata, si ricollega (direttamente o indirettamente non potrei dire, per la mancanza di esemplari di alcuna delle edizioni intermedie) a quella del 1506, di cui riproduce grossolani errori, già scomparsi nella milanese del 1513. Talora invece gli errori sono corretti, e ad una lezione è sostituita un’altra, senza alcuna apparente ragione35. Tutto questo sembra dimostrare [p. xxii modifica] che le correzioni e le sostituzioni non sono state fatte con l’aiuto di codici, ma arbitrariamente.

Venezia, Vincenzio Viviano e Bernardino fratelli, 1522. È citata dal Mazzuchelli nella bibliografia men- zionata (pag. 1422), ma non ne ho rinvenuto alcun esemplare.

Venezia, Francesco Bindoni e Mafeo Pasini, 1525. Sarebbe la prima delle tre date da questi stampatori, ma è edizione supposta dal Brunet (I, 325) e di cui non si conoscono esemplari36.

Vinegia, Bindoni e Pasini, 1527. Un esemplare è posseduto dalla Braidense, un altro dal Museo Britannico, e fu acquistato dopo la morte del Panizzi. Questa edizione accetta tutte le correzioni e parte delle varianti della zoppiniana, ma corregge altri errori e reca lezioni nuove: in qualche punto s’attiene più strettamente alle edizioni antiche.

Venezia, Nicolo de Aristotile detto Zoppino, 1528. L’esemplare da me esaminato è nella Trivulziana.

Venezia, Aurelio Pincio, 1532. Se ne conoscono quattro esemplari; uno nella Grenvilliana, usufruito dal Panizzi; un altro, che era nella biblioteca Reina; un terzo, posseduto dal bibliofilo cav. Giuseppe Cava[p. xxiii modifica] lieri di Ferrara; un quarto segnalato nel catalogo della Biblioteca del co. Girolamo Manzoni37. Il testo presenta singolari rassomiglianze colle edizioni zoppiniane, di cui talvolta riproduce gli errori.

Venezia. Zoppino, 1552 (in fondo al volume 1633). Di un esemplare passato in Inghilterra, si giovò il Panizzi; due altri sono nella Melziana e nell’Ambrosiana38.

Vinezia, Pietro Nicolini, 1535. Fu ignota al Panizzi, ed è quasi materiale riproduzione della edizione zoppiniana del 1532. L’esemplare della Palatina di Firenze (l’altro è alla Vaticana) servì al Virgili per la sua edizione scolastica del poema.

Venezia, Agostino Bindoni, 1538. L’esemplare della Grenvilliana fu consultato dal Panizzi. Questa edizione ha stretti rapporti coll’antecedente, fatta dagli stessi stampatori, ma non può dirsi fedele riproduzione di essa. Talvolta corregge gli errori diversamente: tal altra riproduce la lezione delle antiche stampe.

Venezia, Pietro Nicolini, 1539. Un esemplare è alla Nazionale di Firenze, un altro nella Grenvilliana, e fu veduto dal Panizzi. Due altri sono ricordati nei cataloghi delle vendite Manzoni39 e Maglione40. Riproduce l’altra edizione nicoliniana del ’35. [p. xxiv modifica]

Milano (?) 1539. Riproduce materialmente (compresi due grossi errori) la milanese del ’13. Un esemplare passato in Inghilterra, fu usufruito dal Panizzi. Quello che era alla Laurenziana, fu sottratto in questi ultimi anni. Un terzo era nella biblioteca Maglione41.

Venezia, Alvise De Tortis, 1543. Non ne ho trovato copia nelle biblioteche italiane.

Venezia, Nicolini, 1544. «Materiale ristampa» di quella del ’39, come afferma il Panizzi, che la confrontò coll’esemplare grenvilliano.

Questa sommaria rassegna delle edizioni dell’Innamorato, la quale riassume molte e pazienti ricerche, era necessaria a dimostrare come il testo, diciam cosi, vulgato del poema sia, in sostanza, uno solo: esse si possono ricondurre tutte quante (salvo gli errori e le alterazioni a cui naturalmente va sottoposto un testo riprodotto con certa frequenza da stampatori diversi, e salvo alcune poche varianti, di cui non so spiegare la genesi) alle edizioni antiche; e mal non s’apponeva il Panizzi affermando che quella del 1513, la più antica di cui egli si potè valere, ci dà la lezione più genuina. Ben è vero che a questa edizione (ed a quella milanese del ’39, che, come dissi, la riproduce esattamente) ora egli si tenne strettamente fedele, ora no, anzi spesso non seppe resistere alla tentazione di sostituire alla lezione data da esse, quella, apparentemente migliore, offertagli da alcuna delle stampe più recenti, scostandosi così sempre più dal testo genuino. [p. xxv modifica]

Il quale, come dicevo in principio, ho potuto fissare con sufficiente certezza, avendo a mia disposizione per i due primi libri le edizioni del 1486 e del 1506 e il codice trivulziano; per il terzo il codice stesso e la edizione del 1506.

È evidente, dopo quanto ebbi a concludere circa i rapporti reciproci di MI, T e Mr, che nella ricostruzione del testo io dovevo attenermi principalmente a T, come quello che rappresenta più genuinamente degli altri, sopratutto per la lingua, l’originale; ma dovevo anche tener presenti: Ml, nei casi in cui Mr e T recano ambedue un errore, ed Mr, ogniqualvolta esso corregge lezioni errate di Ml e T, ovvero tiene conto della correzione del Boiardo che l’amanuense ha trascurata; giacchè, dato l’albero genealogico dianzi proposto, tutte le volte che T riproduce la lezione di MI, e Mr reca invece un’altra lezione, quest’ultima rappresenta di regola una correzione voluta o disegnata (chi potrebbe asserire una cosa o l’altra?) dall’autore. Ho detto «di regola», che talvolta può nascere dubbio se la lezione della stampa veneziana non rappresenti per avventura un arbitrio dello stampatore42; perciò io non mi sono obbligato ad accettare a occhi chiusi tutte le correzioni di Mr, ma ho proceduto con una certa libertà; e lo stesso ho fatto, [p. xxvi modifica] benchè molto più di raro, trovandomi davanti a qualche singolare variante di T, che poteva provenire da errata lettura dell’originale, da omissione di parole, da trascrizione inesatta. Ad ogni modo, poichè la lezione non accettata appare in nota, può il lettore ricostituire il testo da sè.

Una certa libertà ho dovuto pur usare quando i tre testi (o i due per il terzo libro) recavano ciascuno una diversa lezione, il che succede molto di raro; e quando davano concordemente una lezione errata, della quale non si vedeva lì per lì chiara e lampante la correzione43. Io accettai quella del Panizzi, quando era, per dir così, suffragata dalle antiche stampe da lui usufruite, parendomi che ceteris paribus la si dovesse preferire ad ogni altra; in caso diverso ora l’accettai, ora invece la rifiutai, e ne proposi una mia propria, stampandola per altro in corsivo44 e riportando semjìre in nota l’errore; ed errori e varianti ho citate, che a prima vista parrebbero superflui, sia per mostrare come si sia ingenerata una lezione falsa, sia per giustificare una correzione. Del Panizzi poi ho recato la lezione anche in altri casi in cui non c’erano dubbiezze, più per iscrupolo di editore che per vera necessità. Gli [p. xxvii modifica] è che talvolta appariscono nel testo datoci da lui, alcune varianti, le quali sono probabilissimamente da attribuire ai poco scrupolosi editori del cinquecento, ma potrebbero per avventura aver fondamento in qualche manoscritto o in qualche edizione del poema di cui si sia perduta da secoli la traccia45.

Lungamente sono rimasto perplesso davanti alcuni singolari costrutti, che non si può dire se rappresentino un vero errore od una lezione genuina, e davanti ad alcune strane forme, le quali è impossibile ricondurre ad una base: che io volevo da una parte offrire un testo leggibile, e dall’altra non mettere temerariamente le mani in esso. Data la regolarità costante delle sintassi seguita dal Boiardo, m’è parso giustificatissimo il proporre, nel primo caso, degli emendamenti, sia col chiudere tra uncinetti le parole inutili, sia collo scrivere in corsivo quelle che mi pareva si dovessero necessariamente aggiungere, sia coll’ interpungere in modo diverso da quello di altri editori; con molta maggior circospezione ho proceduto invece quanto al lessico ed alla morfologia, raramente accogliendo delle congetture, e stampandole sempre in corsivo, sicchè il lettore, posto sull’avviso e ricorrendo alle note, potesse con giusto criterio accettare o respingere le mie proposte.

Ho detto più sopra che io mi tengo, quanto più posso, fedele al manoscritto; ma riprodurre un codice, [p. xxviii modifica] o meglio, questo codice è molto più facile a dire che a mettere in pratica.

Se io avessi avuto dinanzi un testo toscano, sapendo che l’ortografia (tolti alquanti casi, in taluno dei quali l’incertezza dura tuttora) è fissa e determinata, avrei esaminato senz’altro con diligenza la grafia di tutta l’opera, e dedotte quindi le abitudini grafiche del copista: poi il confronto con iscritture sincrone m’avrebbe fatto conoscere ciò che appunto era un’abitudine grafica od un arbitrio di quello, da ciò che era regola (diciamo così) universalmente accettata.

Ma il mio caso era diverso, perchè l’incertezza della grafia, oscillante tra il latino, l’uso toscano e il dialetto, è anzi la caratteristica di questa lingua del tutto artificiale, che potrebbe chiamarsi di tipo lombardo, per essere adoperata, sebbene con alcune differenze, rispecchianti questo o quel dialetto, da letterati e da cancellieri di Milano, Mantova, Ferrara, Piacenza, Padova, Venezia.

Codesta incertezza è accresciuta poi dalla imperizia dell’amanuense, il quale, anche là, dove il manoscritto del Boiardo conservava forse una cotale uniformità, altera la ortografia, sì che una stessa parola, una forma verbale, un nome proprio ci si presentano con due, tre, quattro diverse grafie.

A me dunque per queste ragioni correva l’obbligo di riprodurre fedelmente il codice. D’altra parte non potevo dimenticare che la presente edizione dell’Innamorato, pure essendo fatta in servigio degli studiosi, non doveva riuscire illeggibile, e che bisognava anche [p. xxix modifica] tener conto delle opportunità pratiche: e questo mi dava il diritto di prendermi qualche licenza.

Conchiudendo, io riprodussi l’apografo trivulziano colla maggior fedeltà, scostandomene solo in tre casi: o quando la lezione era manifestamente errata; o quando la grafia di esso avrebbe, dirò così, stonato in una edizione che vuol essere qualche cosa di meno gretto che una mera riproduzione diplomatica; o quando ragioni plausibili mi dimostravano che una data grafia era un arbitrio od una svista dell’amanuense46. Intendo per «ragioni plausibili» l’uso costante seguito da questo nella grafia di alcune poche voci, o l’erroneità di alcune forme, risultante dal semplice confronto dei tre testi, o infine lo studio delle opere minori e dei pochi veri autografi boiardeschi, i quali ci rappresentano per lo meno il tipo di lingua più vicino a quello che dovette seguire l'autore nel poema.

Le licenze che ho creduto di prendermi, vogliono esser qui giustificate. Sostituisco v ad u intervocalico o seguito da vocale; aggiungo h come segno diacritico; sostituisco alle maiuscole, adoperate inutilmente o contro ragione, le minuscole, e viceversa: scrivo [p. xxx modifica] loco, foco, tesoro, catena, cerca, anco, però, Macone, ormai, invece di locho, focho e simili, tanto più che il codice stesso reca talvolta anco, loco, dislocosse, cercare, ormai ecc. Parimente scrivo Astolfo, Galifrone, grazia, tutto, detto invece di Astolpho, Galiphrone, gratia, tucto, decto, perchè si può essere certi che in questi casi il latinismo non andava oltre la scrittura; ma conservo la grafia latina o latineggiante quando essa od è, o può essere un riflesso della pronunzia (triomfo). Se ho ecceduto alcun poco i limiti della discrezione, non so pentirmene del tutto. Le altre grafie latineggianti conservo coi loro ondeggiamenti, e stampo iocondo e giocondo, estima ed extima, destro e dextro, preziato e pregiato ecc.

Nel codice la fusione tra l’articolo e la preposizione non è sempre costante. Costante, o quasi, quasi è in un caso in cui oggi non ha più luogo, cioè in allui, allei ecc.; io la riputai un’abitudine grafica venuta per analogia, non già un riflesso della pronunzia, e sciolsi senz’altro il nesso. Sciolsi pure o raggruppai diversamente umpoco, abbattaglia, la cetta, egliera, chegli. che (ch’è), regolandomi, in questi ultimi casi secondo le abitudini del poeta.

Altre voci ora sono scritte tutte insieme, ora separate ne’ loro elementi etimologici; ma dal ricorrere più o meno frequente dell’una o dell’altra grafia, è facile conoscere se si tratti di una vera e propria incertezza grafica o di una svista. Così saranno accettabili tutte le grafie della congiuntiva «abbenchè», quali abenche, aben che, a benchè, a ben che? Non è il [p. xxxi modifica] caso di scegliere quella o quelle che sembrano legittime, considerato il numero delle volte che ricorre più spesso?

I nomi propri ci si presentano talvolta sotto due, ed anche sotto tre forme: Bajardo e Bagliardo, Gaino e Gano, Pariggi, Parise, Parigi e Parigio, Alfrera e Anfrera, Galafrone e Galifrone, Feraguto, Ferraguto e Feragutto (fuori di rima), Balugante e Balucante, Origille, Origilla e Orrigille ecc. Io conservai le due o tre grafie ogniqualvolta mi parve che potessero trovare spiegazione in una etimologia (vera o falsa, poco monta) o nella derivazione dal francese, ovvero quando ricorrevano su per giù nella stessa misura; negli altri casi adottai quella che mi parve legittima.

Parlerò anche brevemente de’ criteri che mi guidarono nel fissare la grafia di alcune voci. Niun dubbio ch’io non dovessi conservare l’incertezza ortografica del codice, la quale rispecchia un fatto reale, ed è perfettamente logica; ma ognuno vede che, se bastasse, per dare un’edizione critica, riprodurre tale e quale un testo, l’ufficio di editore sarebbe molto agevole. Come potevo stabilire in certi casi se io mi trovavo veramente davanti ad una forma e ad una grafia diverse dall’uso toscano, ovvero ad un errore di trascrizione? Come distinguere gli errori dell’amanuense dalle incertezze vere e proprie dell’ autore? Citerò qualche caso de’ più notabili. Alcune voci si presentano a noi con due o tre diverse grafie: ora, incontrando io ad ogni passo fiama e fiamma, richeza e ricchezza, leggiadro, legiadro e ligiadro, sonno [p. xxxii modifica] e sonacchioso, azuro e azzurro, magior e maggior, piaccia e piazza, alcia e alza, damigella, damigiella e damisella, anello ed annello, lito e litto (falsamente da lictus?) conservai la duplice o triplice grafìa; ma erano da considerare come vere varianti ortografiche altre forme, delle quali si cercherebbe invano una spiegazione plausibile, e le quali anche numericamente non sembrano avere alcuna autorità per essere conservate? Io trovo nei primi canti usate le forme rengo, arengo, renga, regno: quattro per uno stesso vocabolo; ma l’ultima non è da tenersi come un errore di scrittura? Tale sarà pure un chiera che ricorre talvolta nel poema, sostituendosi alla forma regolare ciera (aspetto) e che non ha riscontro in altre scritture del Boiardo (cira nelle Ietterei: un ferrita che ha rarissimi riscontri da poi, un perregrino ecc. Io credetti in questi casi di adottare una grafia sola, dando in nota la forma che non entra nel testo; e in nota ho relegato pure alcune varianti puramente linguistiche, quante volte poteva credersi che la forma accolta nel codice fosse, non già una vera correzione, ma un arbitrio dell’amanuense.

Citerò un’altro caso che mi tenne un po’ perplesso: il raddoppiamento per enclisi. Dopo vocale tonica il raddoppiamento della consonante è normale: dopo vocale postonica, come in vennello, bàttello, ricorre più di raro. Io considero tale grafia come puramente analogica, e accetto sempre quella che si uniforma all’odierna. Ed anche del raddoppiamento della sibilante nelle forme persse, corsse, legasse (legasi) non [p. xxxiii modifica] credo tener conto, parendomi che esso qui non sia altro che un segno grafico della s sorda, troppo alieno dalla grafia moderna. Stampo invece con la consonante doppia i perfetti credetti, feritte, moritte, che possono scambiarsi con le forme del presente credeti, ferite, morite; e i perfetti venne, tenne, cademmo, vedemmo, che si confonderebbero col presente.

Altri casi presentavano difficoltà maggiori, non potendosi ricorrere, per risolverli, nè all’analogia, nè al numero delle volte in cui si presentava una forma piuttosto che un’altra: qui mi aiutai colla conoscenza (quale essa sia) dell’antica lingua letteraria e dei dialetti lombardo e veneto (di questi specialmente è traccia nel codice e nelle due edizioni), e mi giovai ora de’ magistrali lavori dell’Ascoli e del Mussafia, ora del consiglio di uomini consumati in questi studi.

Quanto all’interpunzione (premesso che il codice non ha alcun segno, se ne togli qualche virgola, qualche parentesi, qualche rarissimo «due punti») dirò che, trattandosi di una lingua tutta speciale e di un modo di periodare ancora alquanto slegato e sconnesso, sarebbe stato necessario anche modificare alquanto il sistema ordinario (e pur così imperfetto) di segni47. Ma io non ho avuto l’ardire di farlo, [p. xxxiv modifica] e mi sono ingegnato di ottenere coi mezzi ordinari l’intento, sì rispetto alla sintassi e sì rispetto alle parole, dando, naturalmente, a qualche segno una portata maggiore di quella che ha, e prendendomi delle licenze che non eccedono, per dir cosi, i termini della tradizione. L’uso di essi segni, d’altra parte, anche là dove può parere arbitrario, è sempre giustificato da ragioni che qui sarebbe lungo esporre minutamente; e così quello delle maiuscole.

Aggiungerò che, se m’abbattei in versi ipermetri, non mi arbitrai a considerarli senz’altro come errati, dato il loro numero veramente esiguo, ma posi tra parentesi la vocale che, secondo ogni probabilità, doveva nella pronunzia essere come fognata: del pari conservai le rarissime assonanze.

Per ciò che riguarda le rime imperfette, non sempre il codice si comporta allo stesso modo: di solito, ad appagare, dirò cosi, l’occhio del lettore accomoda l’ortografia della parola alla rima e scrive nara (narra), vano (vanno), disaggio, colona (colonna), parentella: ora invece non se ne cura, e fa rimare vanno con piano, prodeccia con magrezza, abunda con inonda e simili. Io mi credetti autorizzato a ritoccare in questi pochi casi il testo, reputando tali ineguaglianze come errori o sviste dell’amanuense.

Finisco pregando il lettore a tener conto delle poche aggiunte e correzioni che seguono, e a perdonarmi una dimenticanza: quella di porre in principio del primo volume la spiegazione delle quattro sigle T (codice trivulziano), Ml (’edizione del 1486). Mr (edi[p. xxxv modifica] zione del 1506) e P (edizione del Panizzi), il che era necessario, avendo dovuto, contro la mia volontà e per necessità di cose, stampare la prefazione in fondo al terzo volume.

Suggellando il quale col mio povero nome, io non posso non rivolgere il pensiero a due che non sono più, e la cui memoria è in qualche modo legata a questa edizione: Giosuè Carducci, che volle ristampato criticamente il poema del Boiardo, affidando a me, suo discepolo, l’esecuzione del lavoro, ed Angelo Solerti, che ripubblicò, dieci anni or sono, in questa stessa collezione, le poesie volgari e latine del medesimo, e mi fu largo, con altri, di consigli preziosi.

Milano, giugno del 1907

Francesco Foffano

Note

  1. Fu riprodotta in questi ultimi anni con intendimenti commerciali dal Sonzogno di Milano e dal Parino di Roma. — Ricordo qui la pubblicazione di G. B. Venturi Poesie di M. M. Bojardo, Modena, 1820, in cui sono riprodotte alcune stanze ed episodi del poema, e quella scolastica del Virgili Orlando Innamorato, stanze scelte ecc., Firenze, Sansoni, 1892.
  2. In realtà 1487, per la difterenza tra lo stile veneto e lo stile comune. Cfr. Rossi in Giorn. stor. della lett. it., XXV, 397 n.
  3. Cfr. le Notizie della vita di M. M. Boiardo, a pag. 44 del volume miscellaneo Studi su M. M. Boiardo, Bologna, Zanichelli, 1894, e la lett. XLV. la cui data è 1.° aprile 1485.
  4. El terzo libro de l'inamoramento d'Orlando, impresso in Venezia, da Simone Bevilacqua, nel 1495, e descritto dall’Hain (Repertorium bibliogr., Tubinga, 1826-38, v. I, parte I, p. 469), non può essere assolutamente il terzo libro del poema boiardiano. Infatti manca il nome dell’autore, ed i primi versi non corrispondono affatto ai primi del terzo libro del Boiardo. Cfr. anche Melzi e Tosi, Bibliog dei rem. di cav., Milano, 1865, p. 83.
  5. Pag. 289 del vol. XIII.
  6. Cfr. Esami di vari autori sopra l’Eloquenza Italiana di G. Fontanini, Roveredo, 1749, pag. 51. — Come ho lasciato intendere più sopra, d’ogni esemplare di questa supposta edizione erasi già perduta la traccia fino dai tempi dello Zeno, che ne fece paziente ricerca, come quello che disegnava una nuova edizione del poema. (Cfr. Lettere, Venezia, 1785, vol. VI, p. 249). È vero che da un suo corrispondente, il conte Guglielmo Camposampiero, era venuto a sapere che la libreria Boselli di Padova jiossedeva un esemplare di un antica edizione dell’Innamorato, ma non potè vederlo: come io, nonostante diligenti indagini, potei rintracciarlo.
  7. Fulin, Documenti per servire alla storia della tipog. Veneziana, in Arch. veneto, t. XXVII, p. 1.a, p. 157. — Il secondo ed il terzo libro dell’Agostini videro la luce molto più tardi.
  8. Nell’epigramma citato si dice che, quando Camillo pensò a ripubblicare l’opera del padre, tertia vix lustra agebat; e si sa che morì diciottenne nel 1599. D’altra parte nel ’95, come ho notato, si pubblicava ad istanza di lui il libro di Appiano. Su queste due notizie i bibliografi fondano la data probabile di codesta edizione.
  9. Cfr. Giorn. stor. della lett. it., XXXV, 224. — Ho trattato ampiamente di questa edizione suppositizia nel mio scritto Per una edizione dell’O. I. nella Raccolta di studi dedicata ad A. D’Ancona (1901), pp. 47-51.
  10. Nel 1736 era posseduto dal libraio Soliani di Modena, ma come pervenisse nelle sue mani non posso dire, chè non esistono in quella città cataloghi librari i quali risalgano cosi addietro. Nel detto anno passò al bibliofilo De-Aguirre e, morto costui, fu nel 1748 comperato dal marchese Carlo Trivulzi. prozio di Gian Giacomo, il noto editore del Convivio. Tanto si rileva anche da una nota ms., inserita nel codice stesso. Vedine una descrizione sommaria in Porro, Catalogo dei codici manoscritti delia Trivulziana. Torino, Bocca, 1884, pp. 35-36. — Di altri codici del poema, come ho detto, non esistono tracce, e già il Tiraboschi (Biblioteca modenese, art. Boiardo, pag. 301) sospettava, come è veramente, che il Mazzuchelli nella sua bibliografia boiardesca avesse equivocato parlando di due codici, uno appartenente al Trivulzi ed uno al Soliani (cf. Scrittori d’Italia, art. Boiardo, pag. 1422
  11. Il codice reca di mano posteriore (parmi di quella stessa che numerò i fogli) rarissime correzioni di madornali errori di senso: quantità, come dicono i matematici, trascurabile rispetto alle decine di migliaia dei versi del poema, ed alle scorrezioni di cui toccherò più innanzi. Tali sono nel primo libro: Fontana corr. in fortuna (XXII, 12); a la parte — all’aperta (XXVII, 34); nel secondo: Fabricanofabricato (IV, 27); piangendopiegando (VII, 50); Che da quelle utrigioniChe da quei lestrigoni (XVIII, 59) ecc.
  12. Cfr. Porro, pag. 36.
  13. Nel citato volume di Studi su M. M. Boiardo, pp. 357-463.
  14. È la CXIV del volume menzionato qui sopra. Trattandosi di materia così delicata, mi son rivolto per più precise notizie all’amico prof. Naborre Campanini, il quale con molta cortesia e con pari competenza mi scrive che, non avendo potuto riprodurre nel volume boiardesco. da lui curato, la lettera CXXV, autografa per confessione stessa del poeta (ho delibrato per questa de mia mano dare adviso a la S. V.) come troppo lunga, la tenne per guida nei raffronti, e riprodusse la CXIV, essa pure indubbiamente autografa. L’una e l’altra sono nell’Archivio di Stato in Modena. Quanto al giudizio dei tre bibliografi modenesi sull’autografia del codice, giudizio riportato anche dal Porro (luogo citato), basterà avvertire che le tre lettere da loro tenute come autografe, sono invece di segretari del Boiardo.
  15. Riproduco le ottave 51-55 del canto XX del libro secondo.
  16. Il bibliotecario della Trivulziana, signor Emilio Motta, competentissimo, se altri mai, in materia di scritture lombarde di questo tempo, trova nella forma stessa del carattere una riprova che il codice fu scritto o sullo scorcio del quattrocento o ne’ primissimi anni del cinquecento.
  17. Singolarissimo l’errore per cui nell’ottava prima del canto decimo del libro secondo, il verso 6. ha preso il posto del 4.°, e viceversa: errore comune a tutti due, anzi a tutti tre i testi.
  18. Ecco alcuni degl’infiniti errori di Ml, che in T (come appare dal confronto col testo) sono scomparsi: vol. primo, pag. 10, V. 22 Ben la voluntà: id. 153, 18 gioca di spada; id. 214, 1 Ove ho; id. 217, 15 prese: id. 236, 28 sbigotita nel volto; id. 253, 21 e dove e la rivera; id., 272, 27 Hor torna; id., 330, 1 così spesso: id., 430. 12 servito: vol. secondo. 140, 13
  19. è piena; id., 232, 30 il fine; id. 280, 6 indugiar; id., 414, 13 Et viso; id. 378, 22 parte presso; id. 450, 13 come morto: id. 453, 12 era al prato:
  20. Significantissimo anche qui l’errore per cui tra il canto XXIV e il XXV del secondo libro è omesso in T ed Mr lo spazio bianco che suole indicare la fine di un canto ed il principio del successivo, sicchè materialmente formano come un canto solo.
  21. Vedi Bertoni, La Biblioteca estense e la cultura ferrarese ai tempi del duca Ercole I ecc., Torino. Loescher, 1903, p. 27.
  22. Di qui la duplice lezione di alcuni versi del Canzoniere. Cfr. l’edizione del compianto Solerti in questa stessa Collezione, p. XVI della Pref.
  23. Vedi la lett. LXII nel voi. di Studi ecc., p. 404.
  24. Cfr. l’articolo del Luzio, Isabella d’Este e l'O. I. nei ricordati Studi, p. 151.
  25. Anticiperò qui in nota una riprova non priva di valore, della verità della mia ipotesi. Il codice, al v. 1, ott. 48, e, VII del terzo libro sotto il testo della solita mano lascia scorgere chiare tracce di una cancellatura. Or bene: proprio questo verso presenta in Mr e P delle varianti. Non pare evidente che il copista aveva dapprima letto male, o meglio, non aveva tenuto conto della correzione?
  26. Per non avere scrupoli di sorta, ho esaminato alcune stampe di Piero de Piasi (l’editore del 1486) eseguite circa questo tempo, a fine di vedere se ne potevo trar qualche lume intorno alla questione che ho tra mano. Ora in esse non ho trovato errori del genere di quelli rilevati a pag. 10 e seguenti, ma le solite inesattezze grafiche: il che avvalorerebbe l’ipotesi che tali errori sieno da imputare al manoscritto (autografo od apografo) di cui si servi lo stampatore.
  27. Non dimenticherò che più addietro ho dimostrato essere probabilissimo siasi fatta in Scandiano, circa il 1495, una edizione del poema. In quale rapporto era essa con quelle esaminate? Sarebbe assurdo far delle ipotesi: ad ogni modo nulla vieta di credere che Mr sia stato esemplato senz’altro appunto su di essa, e che perciò la supposta edizione rappresenti la parte che ho assegnato ad Mr.
  28. Ecco alcuno degli errori comuni ai due testi: IV, 29, 4 et cui; VII, 39, 5 lagnel: id., 50. 4 capo, c. VTII, 9. 2 e timidi e li arditi. Per le varianti rimando al testo.
  29. Melzi e Tosi parlano di un quarto libro dell’Agostini, impresso in Milano, nel 1507, da Gotardo da Ponte, il quale farebbe parte di una edizione contenente anche i tre libri del Boiardo (op. cit., p. 85). Ma l’esemplare da loro veduto all’ Ambrosiana non esiste più.
  30. Vi è riprodotto, tra gli altri, l’errore nella disposizione dei versi, rilevato a pag. 10.
  31. Devo queste notizie alla cortesia del bibliotecario signor R. Garnett, testè defunto.
  32. Nelle Annotazioni al Fontanini, p. 107 (ed. 1714).
  33. Ed. citata, vol. V. pp. 374-379.
  34. Cfr. la mia storia del Poema cavalleresco nella collezione del Vallardi, vol. II, pag. 116.
  35. Secondo il Panizzi, la zoppiniana del 1532 (33) dà un testo meno genuino che le due del Pincio (1532) e del Bindoni (1538). Lo stesso può affermarsi di questa del 1528, sebbene resti fermo che essa fu condotta sulle edizioni più antiche.
  36. È utile sapere che nel maggio del 1527 il libraio Nicola Garanta chiedeva al senato veneto un privilegio di dieci anni per la stampa in «una sorte de lettera.... non più de simel sorte vista o adoperata» del Furioso, del Morgante maggior e «de li tre libri del signor Maria Bojardo di Orlando Innamorato» ecc. Il privilegio gli fu tosto concesso, ma di niuna di tali edizioni io ho notizia. Tanto rilevo da un documento dell’Archivio di Stato in Venezia, Senato Terra, reg. 24, e. 179.
  37. Catalogue, ecc., Città di Castello, 1892, parte prima, p. 414.
  38. Nell’ Ambrosiana, nonostante le diiigenti ricerche dello stesso Prefetto, esso non fu potuto rinvenire.
  39. Catalogue cit., p. 413.
  40. Catalogne de la bibl. M. B. Maglione, Parigi. 1894. parte prima, pag. 189.
  41. Catalogue cit. parte seconda, pag. 119.
  42. Così, per esempio a pag. 362, v. 10 del primo volume, ando, dato da Mr, sarà una correzione vera e propria, od è invece la trascrizione errata di vado? E parimenti son correzioni od errori il lombardismo tanta soprana (id., p. 464, v. 11) dato solo da Mr, la lezione o sostituita a fo (p. 299. v. 1 del vol. secondo) ecc.?
  43. Qualche rara volta tenni presente il rifacimento del Berni, ed anche l’edizione parziale del poema, condotta dal Virgili, come ho detto, su una stampa del 1535: questo specialmento là dove il senso dipendeva dal modo di interpungere.
  44. Del quale corsivo mi pento di essermi valso, ne’ primi fogli, un po’ troppo raramente. Prego anzi il lettore di volerlo sostituire al carattere ordinario a pag. 9, linea 29 (qui); 14, 6 (nïun): 30, 21 e 166, 11 (musorna); 51, 14 (baston): 81, 30 (Che e’ soi fatti vedea e); 242, 23 (da l’uccel).
  45. Cfr. ad esempio vol. primo, pag. 30, vv. 15-l6; 82, 16; 115. 5: 120, 2-3: 124. 16 e via via.
  46. Mi sia lecito avvertire che, per quanto l’edizione dell’Innamorato e quella delle opere minori dovessero essere condotte con criteri diversi, chi dirigeva questa collezione, volle, e giustamente, che tra i due testi fosse tutta quella uniformità che era compatibile colla diversità di tali criteri. Questo spieghi alcune somiglianze, dirò cosi, esterne tra essi, e la preferenza da me data a una forma piuttosto che ad un’altra ne’ casi dubbi.
  47. Come non distinguere, ad esempio, folia-foglia e foliafollia; dieno dal verbo dare e dieno-devono; solo pronome e solo-suolo; stati participio e stati-sta, tu; fulgor-fulgòre e fulgorfòlgore; ei pronome ed ei-sei; tra-tra i e tra-trae; come congiunzione e come-chiome, e va dicendo?
    Quanto a’ periodi, veggasi la difficoltà di interpungere i luoghi seguenti, che cito come esempio de’ molti: vol. I, pag. 65, ott. 81; id.. 299, 55-56; vol. II, 61, 10; id., 115, 63; id., 282, 6-7; vol. III, 44, 32.