Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/115

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     E d’ulivo una tazza, ch’ancor serba
Quel puro odor; che già le diede il torno,
Nel mezzo a cui si vede in vista acerba
Portar smarrito un giovinetto il giorno;
E sì ’l carro guidar, che accende l’erba,
E fin al fondo i fiumi arde d’intorno:
Stolto, che mal tener seppe il viaggio,
E il consiglio seguir fedele, e saggio

     Ecco Giove, che in Ciel fra mille lampi
Dà sfolgorando il segno, e lo percuote:
Ecco i destrier per gli aerosi campi
Fuggir turbati a parti più remote
Là dove par, che minor fiamma avvampi:
Così dal carro ardente, e da le ruote
Cadde il misero in Po nel fiume avvolto,
Tardi pentito dell’ardir suo stolto.

     L’umor, che col cader si frange, e parte
Là ve più molle ha il Re de fiumi il piede,
Rassomiglia sì il ver, che dirai, l’arte
Quivi d’assai pur la natura eccede.
Con sì alto saper l’opra comparte,
Chi che si fosse, che tal pegno diede
Del saggio ingegno suo chiaro, e gradito,
E mosse a fama gloriosa ardito.