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zola

tagliata una bella fetta, rificcò il coltello nella crosta. I commessi che s’erano indugiati accorrevano in fila, e si mettevano a sedere in fretta e furia; un appetito feroce, raddoppiato dal lavoro di tutta la mattinata, animava le tavole da un capo all’altro della sala. E sempre cresceva il rumore delle forchette, il gorgoglio delle bottiglie, il colpo dei bicchieri posati con troppa forza, il biascichio di cinquecento forti mascelle, che macinavano bravamente. E le parole, non ancora frequenti, si soffocavano nelle bocche piene.

Il Deloche, intanto, tra il Baugé e il Liénard, stava quasi in faccia al Favier, due o tre posti piú in giú. S’eran già lanciati un’occhiata piena di rancore. Quelli accanto, che sapevano la lite del giorno innanzi, sussurravano fra loro. Poi s’eran messi a scherzare sulla sfortuna del Deloche che aveva sempre fame e a cui toccava sempre per maledetto destino il peggior pezzo che ci fosse. Quella mattina gli avevano appioppato un collo di pollo e un po’ di carcassa. Lui, zitto, li lasciava divertire a sue spese, e ingoiava grossi bocconi di pane spellando il collo con l’arte d’uno che ha il debito rispetto a tutto ciò che si mangia.

— Perché non reclamate?... Perché non vi fate cambiar la porzione?

Ma lui si strinse nelle spalle. E a che gli sarebbe servito? Avrebbe fatto peggio. Quando non le pigliava in santa pace, le cose gli andavano anche piú a traverso.

— Sapete che i gomitolai hanno messo su una società? — si mise a un tratto a raccontare il Mignot. — Già, il Gomitolo, il Gomitolo-


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