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il paradiso delle signore

vole poste parallele, traverso la sala: ai due capi c’erano due tavole simili riservate ai direttori e agli ispettori; nel mezzo, un banco per la roba chiesta oltre l’ordinario. Grandi finestre a destra sinistra rischiaravano d’una luce bianca la galleria, di cui il soffitto, sebbene alto quattro metri, pareva basso, schiacciato com’era dalle altre dimensioni. I muri dipinti a olio, d’un color giallo chiaro, non avevano altro ornamento che gli scaffali per i tovaglioli. Accanto a quel primo refettorio c’era quello dei garzoni e dei cocchieri: non avevano ora fissa, e mangiavano quando il servizio permetteva loro di mettersi a tavola.

— Come! anche a voi, Mignot, è toccata una coscia? — disse il Favier quando si fu messo a sedere a una delle tavole in faccia al compagno, Altri commessi si sederono vicino a loro. I piatti posti sul legno, senza tovaglia, mandavano un suono fesso: e tutti badavano a dire, in quel canto, che le cosce eran troppe!

— Ecco degli altri polli che non hanno che le zampe! — osservò il Mignot.

Quelli poi che avevano le carcasse si lamentavano anche loro. Ma il cibo era molto migliorato dopo gli ultimi lavori. Il Mouret aveva eliminato il gerente; dirigeva da sé la cucina, e anche quello era ormai un servizio come tutti gli altri; c’era la sezione della cucina, col capo, gli aiuti, un ispettore. Spendeva di piú, ma gli lavoravano anche di piú, nutriti meglio: calcolo d’umanità pratica, che aveva assai dato a pensare al Bourdoncle.

— Meno male che il mio non è duro! — riprese il Mignot. — Datemi un po’ di pane!

Il pane faceva il giro; e quando egli se ne fu


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