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zola

cini di ferro, una macchina per sbucciare le patate che, quando andava, pareva, al rumore, un mulino, e due carrettini carichi d’insalata, che dei garzoni spingevano a rinfrescare sotto una fontanella.

— Pollo! ripeté il Favier che perdeva la pazienza.

E volgendosi, aggiunse piú sommessamente:

— Uno s’è tagliato... Fa schifo; il sangue cola sulle pietanze.

Il Mignot volle vedere anche lui; i commessi dietro a loro si affollavano sempre con grandi risate e spintoni. E i due giovani, li allo sportello, parlavano di quella cucina da falanstero, nella quale i piú piccoli utensili, perfino gli spiedi e i taglieri, erano giganteschi. Bisognava che preparassero duemila colazioni e duemila pranzi; e gl’impiegati crescevano ogni settimana. Ci volevano ogni giorno sedici quintali di patate, centoventi libbre di burro, ottocento chilogrammi di carne; volta per volta, dovevano sturare tre botti: quasi settecento litri erano mesciuti sul banco dove si distribuiva il vino.

— Ah! finalmente! — disse il Favier, quando il cuoco riapparve con un vassoio e inforchettò una coscia per dargliela.

— Pollo! — disse il Mignot dietro di lui.

E tutt’e due, col piatto in mano, entrarono nel refettorio, dopo aver preso il vino: alle loro spalle la domanda «pollo!» si ripeteva senza tregua, regolarmente, e la forchetta del cuoco infilzava i pezzetti con un piccolo rumore rapido e cadenzato.

Il refettorio era un’immensa sala, dove le cinquecento posate di ciascuna delle tre serie stavano comodamente, messe in fila su lunghe ta-


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