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il paradiso delle signore

no nelle nuove fabbriche. Tanto si affrettò, che raggiunse il Deloche e il Liénard saliti prima di lui; e allora aspettò il Mignot che gli veniva dietro.

— Oh! oh! — disse nell’andito di cucina, davanti alla lavagna dov’era scritto ciò che avevano a colazione — oggi si vede che è giorno d’inventario! Festa intera! Pollo o spezzatino di agnello, e carciofi sott’olio!... Vedrete che bontà, quello spezzatino!

II Mignot sogghignando mormorava:

— Ci dev’essere una malattia nel pollame!...

Il Deloche e il Liénard avevano preso intanto le loro porzioni, e se n’erano andati. Allora il Favier, chinandosi allo sportello, chiese a voce alta:

— Pollo!

Ma dové aspettare un po’, perché uno dei garzoni, nel far le parti, s’era tagliato.

Rimase col viso allo sportello a guardare la cucina, una cucina da gigante, con un gran fornello in mezzo, sul quale, per un congegno di carrucole e funi, venivano a posarsi certe marmitte smisurate che quattro uomini non sarebbero bastati ad alzare. I cuochi, bianchi sul rosso acceso del fuoco, stavano attenti alle pentole pel desinare, ritti su scale di ferro e con in mano lunghi bastoni che avevano in fondo lo schiumatoio. Attaccate al muro si vedevano gratelle sufficienti a far arrostire dei martiri, casseruole da mettervi dentro un montone intero, uno scaldapiatti immenso, una vasca di marmo empiuta continuamente da una cannella d’acqua. Di piú, a sinistra, c’erano degli acquai di pietra larghi come piscine, e a destra una dispensa dove si scorgevano pezzi di carne cruda pendenti da un-


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