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Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/117

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     Di tanto dono invidiosa Carme,
Di trarlomi di man pon ogni ’ngegno
E forse lo farà, perchè d’amarme
Talor mi mostra pur un piccol segno,
Nè come tu, il mio vil ruvido carme,
Quando io canto d’amor, si prende a sdegno:
Anzi meco seder non si vergogna
E porsi al collo questa mia zampogna.

     Pan, che ’l governo ha de la gregge in mano
E i pastor cura con pietà severa,
Dei calami, che amò già in corpo umano
Congiunse prima una forbita schiera,
Che decrescendo vien di mano in mano:
E quella avvinta di tenace cera,
Portò cantando al ciel con salde penne
Siringa, che per lui canna divenne.

     Con questa in mezzo a i prati d’Aracinto,
Cantando fè gl’armenti già Anfione
Obbliar l’erbe, e in mille nodi avvinto
Sileno espose ad altri la cagione,
Perchè fu il mondo, come appar, distinto
In tante forme, e qual ferma stagione
Faccia forza è s’opponga ai giorni tardi,
E sian gli altri veloci più che pardi.