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Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/126

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     Nè già mai a le spiche è sì molesto,
Allor che il campo tutto biondo ondeggia
Oscuro nembo: nè sì lupo infesto
A paventosa, e mal rinchiusa greggia:
Nè il vento a i fiori, quando irato, e presto
Scuote ogni ricca piana, che verdeggia;
Come la pena mia l’alma m’attrista
Con rei sembianti, e con oscura vista.

     Però tornando dagli avari colli,
Cui il latte del mio ovil gran 1empo premo,
E guido agnelli delicati, e molli
Con desir, onde al sol più caldo tremo,
Seta le reco (o vani pensier folli),
Che il crine accolga, che lodando scemo:
Talor le porto una conocchia, quale
Minerva istessa non sprezzasse, o Pale.

     Per tutto ciò debil soccorso porgo
Al dolor infinito, che m’ancide,
Ch’ella (se il ver dentro a begl’occhi scorgo)
Seco del mio languir gioisce, e ride:
E se dal duol talor aspro risorgo,
Subito gli occhi da pietà divide:
E nel bel petto un cor di tigre, o d’orsa
Mentre nasconde, ogni mio stato insorsa.