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zola

stagione, delle trine russe da guarnire la biangl’involti facendola scricchiolare, e i commessi cheria da tavola. Sulla seggiola s’ammucchiavano si succedevano, sempre piú stanchi, a mano a mano che il carico era piú grave.

— Per di qua, signora, — diceva Dionisia dopo ogni fermata, senza mai lamentarsi.

— È una stupidaggine bella e buona! — esclamava la Desforges. — Non si arriva mai! Come si fa a non aver messo i mantelli accanto alle «confezioni»? Un bell’imbroglio è questo!

La Marty, con gli occhi spalancati, ubriacata da tante belle cose che le passavan dinanzi agli occhi, si abbandonava ormai intera alla furia di spendere, contentandosi di borbottare fra i denti:

— Dio mio! che ne dirà mio marito? Avete ragione voi! non c’è ordine, in questo magazzino. Ci si perde la testa, e si fanno delle sciocchezze.

Nel gran pianerottolo di mezzo, la seggiola quasi quasi non poté passare. Il Mouret l’aveva ingombrato con un monte di oggetti parigini, tazze col piede di zinco dorato, astucci e portaliquori, perché gli era parso che ci fosse troppo posto vuoto, è la gente non ci si accalcasse abbastanza. Ed aveva cosí permesso, a uno dei suoi venditori, d’esporre su un tavolino le curiosità della Cina e del Giappone, gingilli da pochi soldi, che le signore si leticavano. Era un buon successo inaspettato; pensava di già a ingrandire quella vendita. La Marty, mentre i due garzoni portavano la seggiola al secondo piano, comprò sei bottoncini d’avorio, dei topini di seta, e un portafiammiferi di smalto a colori.

Al secondo piano il viaggio ricominciò. Dio-


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