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il paradiso delle signore

Erano le quattro; i raggi del sole che si volgeva al tramonto entrarono obliquamente per le larghe aperture della facciata a illuminare le invetriate delle corti; e in quel chiarore d’un rosso d’incendio salirono come un aureo vapore i polviscoli sollevati nella mattina dallo scalpiccio della folla. La luce coglieva per mezzo la grande galleria centrale, e sul fondo rosso spiccavano le scale, i ponti, tutto quel ferro sospeso per aria. I mosaici e le porcellane dei cornicioni lampeggiavano; il verde e il rosso delle pitture si accendevano nei fuochi di quell’oro. Pareva una brace viva dove ardessero le mostre, i palazzi di guanti e di cravatte, le ghirlande di nastri e di trine, gli alti mucchi di lana e bordato, le aiuole fiorenti delle sete. Gli specchi luccicavano. L’esposizione degli ombrelli, rigonfi come scudi, gittava riflessi metallici. Lontano, di là dalle strisce d’ombra, apparivano le sezioni splendenti e brulicanti, indorate dal sole.

E in quell’ora suprema, in mezzo a quell’atmosfera ardente, le donne imperavano: avevan presi d’assalto i magazzini e là si accampavano come in terre conquistate, quasi un’orda invadente fermatasi tra la rovina delle merci. I commessi, sbalorditi, rotti dalla fatica, erano in loro balia, ed esse comandavano con tirannia da sovrana. Alcune pigiavano a spinte la gente; perfino le piú sottili volevano stare al largo, e diventavano arroganti. Tutte con la testa alta, senza nessun riguardo l’una per l’altra, usando del da magazzino e abusandone piú che potessero, furibonde. La Bourdelais, per riprendere i quattrini spesi, aveva portato daccapo i tre bambini a bere sciroppo: la gente vi si accalcava ora come se non ne potesse piú dalla sete; le mamme


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