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il paradiso delle signore

s’indugiava dinanzi alle rauche grida dei venditori, tra il tintinnio dell’oro versato nelle casse e il rumore degl’involti che cadevano nel sotterraneo: attraversò un’altra volta il pianterreno, la biancheria, la seta, i guanti, le lane, e poi risalí abbandonandosi alla vibrazione metallica delle scale, dei ponti, tornò alle «confezioni», alla biancheria, alle trine, e montò fino al secondo piano tra i letti e la mobilia.

Dappertutto i commessi, l’Hutin, il Favier, il Mignot, il Liénard, il Deloche, Paolina e Dionisia, reggendosi appena ritti, davano il colpo di grazia, e, aiutati da quell’ultima febbre, atterravano le clienti. La febbre non aveva fatto che crescere, dalla mattina in poi, a poco a poco, come l’ebrezza che vaporava dalle stoffe smosse e rimosse. Fiammeggiava la calca sotto l’incendio del sole delle cinque. La Marty aveva il viso animato e nervoso d’un bambino che ha bevuto troppo vino puro. Era venuta con gli occhi limpidi, con la pelle fresca pel freddo della via, e a un po’ per volta s’era infiammata gli occhi e il viso nell’avida contemplazione di quel lusso, di quei colori accesi, da cui le veniva attizzata e rinfocolata la passione. Quando finalmente uscí, dopo aver detto che avrebbe pagato a casa, atterrita dal conto, aveva i lineamenti contratti e gli occhi infossati come una malata. Bisognò che desse assai spinte per uscire dalla ressa ostinata sulla porta; si ammazzavano quasi, contendendosi gli scarti. Poi, quando fu sul marciapiede ed ebbe ritrovata la figliuola che aveva perduta, si sentí un brivido a quell’aria pungente, e rimase stordita, stralunata, nello spossamento di tanto sussulto nervoso.


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