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zola

su una seggiola, davanti a un banco; doveva contentarsi di segnare la roba che a mano a mano era calata dagli scaffali. La domenica dell’inventario, quanti sapevano tenere una penna in mano, erano visti e presi: gl’ispettori, i cassieri, gli impiegati dell’amministrazione, perfino i garzoni; anzi le sezioni si disputavano quell’aiuto momentaneo, per far piú presto. Cosí Dionisia si sedé tra il Lhomme e Giuseppe, chini tutt’e due su grandi fogli di carta.

— Cinque mantelli stoffa, guarniti pelliccia, gridava terza grandezza, duecentoquaranta! — gridava Margherita. — Quattro idem, prima grandezza, duecentoventi!

Il lavoro ricominciò. Dietro Margherita, tre ragazze votavano gli armadi, mettevano in ordine la roba, gliela passavano a pacchi; e quando lei aveva detto che cosa erano, e il prezzo, li buttava su delle tavole, dove a poco a poco formavano mucchi enormi.

Il Lhomme scriveva, e Giuseppe faceva un’altra lista per riscontro: la signora Aurelia in persona, aiutata da tre ragazze, contava da sé i vestiti di seta, che Dionisia appuntava scrivendo in un foglio. Clara doveva stare attenta ai mucchi della roba, e ordinarli in modo che tenessero il minor posto possibile lungo le tavole; ma ci stava poco attenta, e qualche mucchio minacciava di rovinare.

— Dite un po’, — chiese a una ragazzetta entrata quell’inverno — vi crescono qualche cosa a voi? La vice la metteranno a duemila franchi, e cosí con gli altri guadagni si beccherà quasi settemila franchi l’anno!

L’altra, senza smettere di passare mantelli, rispose che, se non le dessero ottocento franchi,


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