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zola

schiaffo: e sentendo che l’altro seguitava a dire che la ragazza scendeva tutte le notti in camera del padrone, furibondo gli aveva dato del bugiardo e del temerario.

— Chetati, brutto porco!... Non è vero nulla, non è vero nulla!

E, con sussulti di commozione, non pensava a frenarsi piú, e, balbettando, sfogava l’amor suo:

— Io lo so, la conosco io!... Non ha voluto bene che a uno, all’Hutin, e lui non se n’è nemmeno accorto; non si può nemmeno vantare di averle toccato la punta d’un dito!

Il racconto di questo diverbio, abbellito con tutte le frange possibili e immaginabili, faceva ridere già tutto il magazzino, quando entrò in ballo anche la lettera del Mouret. Per l’appunto il primo a sapere la cosa dal Liénard fu un commesso delle sete. Nella sezione delle sete l’inventario procedeva alla lesta: il Favier e due impiegati, ritti su degli sgabelli, votavano gli scaffali, passando di mano in mano le stoffe all’Hutin, che, ritto anche lui su una tavola, dava un’occhiata ai cartellini e diceva il prezzo; poi le buttava in terra dove salivano, salivano, come una marea d’autunno. Altri scrivevano, aiutati da Alberto Lhomme tutto intontito per aver fatta nottata in una casaccia di Batignolles. Dall’invetriata della corte cadeva un raggio di sole, e s’intravedeva l’azzurro infiammato del cielo.

— Perché non tirate le tende? — esclamò il Bouthemont, tutt’attento a sorvegliare. — Non si resiste, con questo sole!

Il Favier, che s’alzava sulla punta dei piedi per pigliare una pezza di stoffa, mormorò fra i denti:


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