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zola

reva che il Dio della civetteria avesse quivi il suo bianco tabernacolo.

La De Boves, intanto, dopo avere a lungo passeggiato con la figliuola, ronzando intorno alle mostre, col bisogno sensuale di ficcare le mani tra le stoffe, alla fine s’era fatta mostrare dei merletti d’Alençon, dal Deloche. Prima egli le aveva messo innanzi certe imitazioni, ma lei volle il vero Alençon; e non si contentava delle guarnizioni da trecento franchi il metro, ma esigeva trine da mille, fazzoletti e ventagli da sette e ottocento. Dopo poco, il banco era coperto da un intero tesoro. In un angolo della sezione il Jouve, che non aveva mai perduto di vista la De Boves, sebbene essa sembrasse girare soltanto per divertirsi, se ne stava immobile tra le spinte, con un’aria indifferente, ma sempre con gli occhi addosso a lei.

— E scialletti di trina buona ce n’avete? — domandò la contessa al Deloche — fatemeli vedere!

Il commesso, tenuto oramai da venti minuti, non osava resistere, tanto ella aveva apparenza e voce da principessa. Con tutto ciò esitò un poco, perché ai commessi raccomandavano sempre di non ammonticchiare cosí sul banco le trine di prezzo; e anche la settimana innanzi, s’era lasciato rubare dieci metri di malines. Ma lei gli dava soggezione, e cedette, lasciando un istante le trine d’Alençon per prendere in uno scaffale, dietro alle sue spalle, gli scialletti.

— Guarda un po’, mamma, — diceva Bianca, che frugava accanto a lei una scatola piena di valenciennes da poco — per i guanciali si potrebbero prendere di queste!

La De Boves non rispondeva. Allora la fi-


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