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zola

e vendicatrice di Dionisia, di cui si sentiva sulla gola il calcagno vittorioso. Si fermò in cima alla scala di mezzo, a guardare l’immensa navata dove s’accalcava il suo popolo di donne.

Stavano per sonare le sei; il giorno che tramontava si ritirava dalle gallerie già buie, impallidiva in fondo alle sale invase lentamente dalle tenebre. E in quel chiarore, non ancora tutto spento, s’accendevano a una a una le lampade elettriche, che coi loro globi di candore opaco costellavano, come lune, le profondità lontane delle sezioni. Era una luce bianca, fissa, abbacinante, diffusa come il riflesso d’un astro scolorito, e che uccideva il crepuscolo. Poi, quando furono accese tutte, la folla ebbe un mormorio d’ammirazione, perché la grande esposizione del bianco prendeva uno splendore magico d’apoteosi sotto la nuova luce. Parve che tutto quel bianco ardesse anch’esso, e che si facesse luce.

Il cantico del bianco saliva nel candore infiammato d’un’aurora. Dalle tele e dai cotoni della galleria Monsigny sorgeva un candido chiarore simile alla striscia luminosa che per la prima, dalla parte d’oriente, rischiara il cielo: e, lungo la galleria Michodière, la merceria e i nastri, gli oggetti di Parigi e i passamani, gittavano riflessi di lontani declivi, il lampo bianco dei bottoni di madreperla, dei bronzi inargentati, delle perle. Ma la navata di mezzo cantava piú delle altre il bianco vivo: gli sbuffi della mussolina bianca intorno alle colonne, i «picchè » bianchi che ammantellavano le scale, le coperte bianche ondeggianti come bandiere, le trine e i merletti che volavan per l’aria, schiudevano un firmamento da sogno, lasciavano in-


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