Giobbe (Rapisardi)/Parte seconda/Intermezzo secondo/V
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Sia maledetto il dì, sia maledetto
Il giorno abbominato
In che nacqui e la notte in cui fu detto:
Un altro maschio è nato.
Senz’astri, senza fior, senz’armonia,
Freddo, scuro, deserto
Resti quel dì come la vita mia,
Come sepolcro aperto:
Vasto sepolcro che di vita ha brama.
Cor che il pianto divora,
Notte che l’alba eternamente chiama,
Uom che la morte implora.
Perchè dall’alvo uscii? Perchè i ginocchi
M’han pòrti? Perchè m’hanno
Le mamme offerte? Perchè schiusi ho gli occhi
Al sole, anzi all’affanno?
Come leon che cada entro a profonda
Fossa e rugghiando muore,
Entro il mal, che m’assiepa e mi circonda.
Precipitò il mio cuore;
Ma ruggo indarno, ed alla morte innalzo,
Siccome a Dio, le braccia:
D’uno ad altro dolor ferito io balzo,
E asconde essa la faccia.
Perchè all’uom questo cielo e questa intensa
Luce negli occhi infermi,
Se i suoi pensieri in cupa notte immensa
Strisciano come vermi?
Perchè, s’esser dovea misero tanto,
M’han sogghignando ordita,
Come rete ad augel mentr’alza il canto,
La fraude della vita?
O perchè non perii dentro al materno
Grembo? Perchè la morte
Non mi fiaccò, prima che il gioco alterno
Della ferrigna sorte
Provassi? Ora tranquillo poserei
Del freddo sonno in braccio,
Come ululando sopra i giorni miei
Nella sventura io giaccio;
Dormirei là dov’ha riposo e pace
Col vincitore il vinto,
Dove col giusto il reo, col servo giace
In pari laccio avvinto
Chi i popoli regnò, chi l’arse arene
In vivi orti converse,
Chi i deserti in città, chi l’irte schiene
De’ monti in mare aperse.
Là nella reggia bianca, entro l’immensa
Pace marmorea, dove
Non s’ama, non si sogna, non si pensa,
Dove nulla si muove,
Là tu concedi alfin, là tu concedi,
Docile, eterna, uguale,
La ricchezza, onde siam tutti gli eredi,
Il fior d’ogni mortale
Arbore, il frutto de’ travagli umani,
Il ben sommo, la sorte
Senz’oggi, senza jer, senza domani,
L’unico vero, o Morte!