Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Cimabue

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Proemio delle Vite Arnolfo di Lapo
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vita di cimabue pittore fiorentino.


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RANO per l’infinito Diluvio de’ mali, che havevano cacciato al disotto, e affogata la misera Italia, non solamente rovinate quelle, che veramente fabriche chiamar si potevano; Ma, quello, che importava piu, spento affatto tutto il numero de gl’artefici; Quando, come Dio volle, nacque nella città di Fiorenza l’anno mccxl. per dare i primi lumi all’Arte della Pittura, Giovanni cognominato Cimabue della nobil famiglia in que tempi di Cimabui; costui crescendo, per esser giudicato dal padre, et da altri di bello, e acuto ingegno, fu mandato, accio si esercitasse nelle lettere, in Santa Maria Novella à un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica a’ Novizij di quel convento; Ma Cimabue in cambio d’attendere alle lettere, consumava tutto il giorno, come quello, che acio si sentiva tirato dalla Natura in dipingere in su libri, et altri fogli, huomini, cavalli, casamenti, et altre diverse fantasie; Allaquale inclinatione di Natura fu favorevole la fortuna; perche essendo chiamati in Firenze, da chi allhora governava la città, alcuni pittori di Grecia, non per altro, che per rimettere in Firenze la pittura, piu tosto perduta, che smarrita, cominciarono fra l’altre opere tolte à far nella città, la capella de’ Gondi, di cui hoggi le volte, e le facciate, sono poco meno, che consumate dal tempo, come si puo vedere in Santa Maria Novella, allato alla principale capella, dove ell’è posta, Onde Cimabue, cominciato a dar’ principio à questa arte, che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola, stava tutto il giorno a vedere lavorare que’ maestri; Di maniera, che giudicato dal padre, et da quei pittori in modo atto alla pittura, che si poteva di lui sperare, attendendo a quella professione, honorata riuscita; con non sua piccola sodisfattione fu da detto suo padre acconcio con esso loro, la dove di continuo esercitandosi l’aiutò in poco tempo talmente la Natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno, come nel colorire la maniera de’ maestri, che gli insegnavano, i quali non si curando passar piu innanti, havevano fatte quelle opre nel modo, che elle si veggono hoggi; cioè non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que’ tempi; et perche, se bene imitò que’ Greci, aggiunse molta perfezzione all’arte, levandole gran parte della maniera loro goffa, honorò la sua patria col nome, et con l’opre, che fece, di che fanno fede in Fiorenza le pitture, che egli lavorò, come il Dossale dell’altare di Santa Cecilia, et in Santa Croce una tavola drentovi una nostra donna, laquale fu, et è ancora appoggiata in uno pilastro a man destra intorno al coro. Doppo la quale fece in una tavoletta in campo d’oro un San Francesco, e lo ritrasse, il che fu cosa nuova in que’ tempi, di naturale, come seppe il meglio, et intorno a esso tutte l’istorie della vita sua in venti quadretti pieni di figure picciole in campo d’oro. Havendo poi preso a fare, per i Monaci di Vall’Ombrosa nella Badia di Santa Trinita di Fiorenza una gran tavola, mostrò in quella opera, usandovi gran diligenza, per rispondere alla fama, che gia era conceputa di lui, migliore inventione, et bel modo nell’attitudini d’una nostra Donna, che fece col figliuolo in braccio, e con molti angeli intorno, che l’adoravano in campo d’oro, laqual tavola finita fu posta da que’ monaci in sull’altar Maggiore di [p. 84 modifica]detta chiesa; donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola, che v’è hoggi di Alesso Baldovinetti, fu posta in una capella minor della Navata sinistra di detta chiesa. Lavorando poi in fresco allo spedale del Porcellana, sul canto della via nuova, che va in borgo Ognisanti nella facciata dinanzi, che ha in mezo la porta principale, da un lato la Vergine Annunziata da l’Angelo, et da l’altro Giesu Christo con Cleofas, et Luca, figure grandi quanto il naturale; levò via quella vecchiaia, facendo in quest’opra i panni, et le vesti, e l’altre cose un poco piu vive, et naturali, et piu morbide, che la maniera di que’ greci tutta piena di linee, e di proffili, cosi nel musaico, come nelle pitture; la qual maniera scabrosa, et goffa, et ordinaria havevano, non mediante lo studio, ma per una cotal usanza insegnato l’uno all’altro, per molti, et molti anni, i pittori di que’ tempi, senza pensar mai a migliorare il disegno, à bellezza di colorito, ò inventione alcuna, che buona fusse. Essendo dopo quest’opra richiamato Cimabue dallo stesso guardiano, che gl’haveva fatto l’opere di Santa Croce, gli fece un Crocifisso grande in legno, che ancora hoggi si vede in chiesa, laquale opera fu cagione parendo al guardiano esser stato servito bene, che lo conducesse in San Francesco di Pisa loro convento, a fare in una tavola un San Francesco, che fu da que’ popoli tenuto cosa rarissima, conoscendosi in esso un certo chè, piu di bontà, e nell’aria della testa, e nelle pieghe de’ panni, che nella maniera greca non era stata usata in sin’allora da chi haveva alcuna cosa lavorato, non pur’in Pisa, ma in tutta Italia. Havendo poi Cimabue, per la medesima chiesa fatto in una tavola grande, l’immagine di nostra Donna col figliuolo in collo, e con molti angeli intorno, pur in campo d’oro, ella fu dopo non molto tempo levata di dove ell’era stata collocata la prima volta, per farvi l’altare di marmo, che vi è al presente; e posta dentro alla chiesa allato alla porta, a man manca. Per laquale opera fu molto lodato, et premiato da’ Pisani. Nella medesima città di Pisa, fece a richiesta dell’Abbate allora di San Paulo in Ripa d’Arno in una tavoletta una Santa Agnesa, et intorno a essa di figure piccole tutte le storie della vita di lei, la qual tavoletta è hoggi sopra l’altare delle vergini in detta chiesa. Per queste opere dunque, essendo assai chiaro per tutto il nome di Cimabue, egli fu condotto in Ascesi città dell’Umbria, dove in compagnia d’alcuni maestri greci dipinse nella chiesa di sotto di San Francesco parte delle volte, e nelle facciate la vita di Giesu Christo, e quella di San Francesco. Nellequali pitture passò di gran lunga que’ pittori greci: onde cresciutogli l’animo, cominciò da se solo a dipigner a fresco la chiesa di sopra, e nella tribuna maggiore fece sopra il choro in quattro facciate alcune storie della nostra Donna, cioè la morte; quando è da Cristo portata l’anima di lei in cielo sopra un trono di nuvole; et quando in mezzo a un coro d’Angeli la corona, essendo da pie gran numero di santi, e sante hoggi dal tempo, e dalla polvere consumati. Nelle crociere poi delle volte di detta chiesa, che sono cinque, dipinse similmente molte storie; Nella prima sopra il coro fece i quattro evangelisti maggiori del vivo, e cosi bene, che ancor hoggi si conosce in loro assai del buono; et la freschezza de’ colori nelle carni, mostrano, che la pittura cominciò a fare per le fatiche di Cimabue grande acquisto nel lavoro a fresco. La seconda crociera fece piena di stelle d’oro in campo d’azurro oltramarino. Nella terza fece in alcuni tondi Giesu Christo, la Vergine sua madre, San Giovanni Battista, [p. 85 modifica]et San Francesco, cioè in ogni tondo una di queste figure, et in ogni quarto della volta un tondo. E fra questa, e la quinta crociera, dipinse la quarta di stelle d’oro, come disopra in azurro d’oltramarino. Nella quinta dipinse i quattro Dottori della chiesa, et appresso a ciascuno di loro, una delle quattro prime religioni, opera certo faticosa, et condotta con diligenza infinita. Finite le volte lavorò pure in fresco le facciate di sopra della banda manca di tutta la chiesa, facendo verso l’altar maggiore fra le finestre, et insino alla volta otto storie del testamento vecchio, cominciandosi dal principio del Genesi, e seguitando le cose piu notabili. Et nello spazio, che è intorno alle finestre insino a che le terminano in sul corridore, che gira intorno dentro al muro della Chiesa dipinse il rimanente del testamento vecchio in altre otto storie. E dirimpetto a questa opera in altre sedici storie, ribattendo quelle, dipinse i fatti di nostra donna, e di Giesu Christo. E nella facciata da pie sopra la porta principale, e intorno all’occhio della Chiesa, fece l’ascendere di lei in cielo, et lo spirito santo, che discende sopra gl’Apostoli. Laqual opera veramente grandissima, et ricca et benissimo condotta, dovette per mio giudizio, fare in que’ tempi stupire il mondo, essendo massimamente stata la pittura tanto tempo in tanta cecità. Et a me, che l’anno 1563. la rividi parve bellissima, pensando come in tante tenebre potesse veder Cimabue tanto lume. Ma di tutte queste pitture (al che si deve haver considerazione) quelle delle volte, come meno dalla polvere, e da gl’altri accidenti offese, si sono molto meglio, che l’altre conservate. Finite queste opere, mise mano Giovanni a dipignere le facciate disotto, cioè quelle che sono dalle finestre in giu, et vi fece alcune cose, ma essendo a Firenze da alcune sue bisogne chiamato, non seguitò altramente il lavoro; ma lo finì, come al suo luogo si dirà, Giotto, molti anni dopo. Tornato dunque Cimabue a Firenze, dipinse nel chiostro di Santo Spirito, dove è dipinto alla greca da altri maestri, tutta la banda di verso la Chiesa, tre Archetti di sua mano, della vita di Christo, et certo con molto disegno. Et nel medesimo tempo mandò alcune cose da se lavorate in Firenze, a Empoli, lequali ancor hoggi sono nella pieve di quel castello tenute in gran venerazione. Fece poi per la Chiesa di Santa Maria Novella la Tavola di Nostra Donna, che è posta in alto fra la capella de’ Rucellai, e quella de’ Bardi da Vernia; Laquale opera fu di maggior grandezza, che figura, che fusse stata fatta insin’a quel tempo. Et alcuni Angeli, che le sono intorno, mostrano, ancor che egli havesse la maniera greca, che s’andò accostando in parte al lineamento, et modo della moderna. Onde fu questa opera di tanta maraviglia ne’ popoli di quell’età, per non si esser veduto insino allora meglio, che da casa di Cimabue fu con molta festa, et con le trombe alla chiesa portata con solennissima processione, et egli percio molto premiato, et honorato. Dicesi, et in certi ricordi di vecchi pittori si legge, che mentre Cimabue la detta tavola dipigneva in certi orti appresso porta San Piero; che passò il Re Carlo il vecchio d’Angiò per Firenze, et che fra le molte accoglienze fattegli da gl’huomini di questa Città, e lo condussero a vedere la tavola di Cimabue. E che per non essere ancora stata veduta da nessuno, nel mostrarsi al Re vi concorsero tutti gl’huomini, et tutte le Donne di Firenze, con grandissima festa, et con la maggior calca del mondo. La onde per l’allegrezza, che n’hebbero i vicini, chiamarono quel luogo Borgoallegri, [p. 86 modifica]ilquale col tempo messo fra le mura della città, ha poi sempre ritenuto il medesimo nome. In San Francesco di Pisa, dove egli lavorò, come si è detto disopra, alcune altre cose, è di mano di Cimabue nel chiostro allato alla porta, che entra in chiesa in un cantone, una tavolina a tempera, nella quale è un Christo in croce con alcuni Angeli a torno, i quali piangendo pigliano con le mani certe parole, che sono scritte intorno alla testa di Christo, e le mandano all’orecchie d’una nostra Donna, che a man ritta, sta piangendo, e dall’altro lato a san Giovanni Evangelista, che è tutto dolente a man sinistra: E sono le parole alla Vergine; Mulier Ecce Filius Tuus, e quelle a san Giovanni: Ecce Mater Tua. E quelle, che tiene in mano un’altr’angel’appartato: dicano ex illa hora accepit eam discipulus in suam. Nel che è da considerare, che Cimabue cominciò a dar lume, et aprire la via all’invenzione, aiutando l’arte con le parole, per esprimere il suo concetto; Il che certo fu cosa capricciosa, e nuova. Hora, perche, mediante queste opere, s’haveva acquistato Cimabue con molto utile grandissimo nome, egli fu messo per Architetto in compagnia d’Arnolfo Lapi, huomo allora nell’architettura eccellente, alla fabrica di Santa Maria del Fior in Fiorenza. Ma finalmente, essendo vivuto sessanta anni passò all’altra vita l’anno Mille trecento, havendo poco meno, che resuscitata la pittura. Lasciò molti discepoli, e fra gl’altri Giotto, che poi fu Eccellente pittore, Ilquale Giotto habitò dopo Cimabue nelle proprie case del suo Maestro nella via del Cocomero. Fu sotterato Cimabue in Santa Maria del Fiore con questo epitaffio fattogli da uno de’ Nini.

Credidit ut Cimabos picturæ castra tenere,
Sic tenuit; Nunc tenet astra poli.

Non lascerò di dire, che se alla gloria di Cimabue, non havesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe stata la fama di lui maggiore, come ne dimostra Dante nella sua comedia, dove alludendo nell’undecimo canto del purgatorio, alla stessa inscrizzione della sepoltura, disse:

Credette Cimabue, nella pittura
Tener lo campo, et hora ha Giotto il grido;
Si che la fama di colui oscura.

Nella dichiarazione de’ quali versi un Comentatore di Dante, ilquale scrisse nel tempo, che Giotto vivea; E dieci, o dodici anni dopo la morte d’esso Dante, cio è in torno agl’anni di Christo Mille trecento trentaquattro, dice, parlando di Cimabue queste proprie parole precisamente: Fu Cimabue di Firenze pintore nel tempo di lautore, molto nobile di piu che homo sapesse, et con questo fue si arogante, et si disdegnoso, che si per alcuno li fusse a sua opera posto alcun fallo, o difetto o elli da se lavessi veduto: che come accade molte volte l’Artefice pecca per difetto della materia, in che adopra; o per mancamento ch’è nello strumento con che’ lavora: Inmantenente quell’opra disertava, fussi cara quanto volesse. Fu, et è Giotto in tra li dipintori il piu sommo della medesima Città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a Padova, et in molte parti del mondo etc. Il qual comento è hoggi appresso il molto Reverendo Don Vincenzio Borghini priore degl’Innocenti, huomo non solo per nobiltà, bontà e dottrina [p. 87 modifica]chiarissimo, ma anco cosi amatore, et intendente di tutte l’arti migliori, che ha meritato esser giudiziosamente eletto dal Signor Duca Cosimo in suo luogotenente nella nostra Accademia del disegno. Ma per tornare a Cimabue, oscurò Giotto veramente la fama di lui, non altrimenti, che un lume grande faccia lo splendore d’un molto minore; percioche se bene fu Cimabue quasi prima cagione della rinovazione dell’arte della pittura, Giotto non dimeno suo creato, mosso da lodevole ambizione, et aiutato dal Cielo, et dalla Natura, fu quegli, che andando piu alto col pensiero, aperse la porta della verità à coloro, che l’hanno poi ridotta a quella perfezzione, e grandezza in che la veggiamo al secolo nostro. Il quale avezzo ogni di a vedere le maraviglie, i miracoli, e l’impossibilità degli artefici in questa arte, è condotto hoggimai a tale, che di cosa, che facciano gli huomini, benche piu divina, che humana sia, punto non si maraviglia. E buon per coloro, che lodevolmente s’affaticano, se in cambio d’essere lodati, et ammirati, non ne riportassero biasimo, e molte volte vergogna. Il ritratto di Cimabue si vede di mano di Simon Sanese nel capitolo di Santa Maria Novella fatto in profilo nella storia della fede, in una figura, che ha il viso magro, la barba piccola, rossetta, et apuntata, con un capuccio, secondo l’uso di quei tempi, che lo fascia intorno intorno, e sotto la gola con bella maniera. Quello, che gli è alato, è l’istesso Simone maestro di quell’opera, che si ritrasse da se con due specchi, per fare la testa in profilo, ribattendo l’uno nell’altro. E quel soldato coperto d’arme, che è fra loro, è secondo si dice, il Conte Guido Novello,signore allora di Poppi. Restami à dire di Cimabue, che nel principio d’un nostro libro, dove ho messo insieme disegni di propria mano di tutti coloro, che da lui in quà, hanno disegnato, si vede di sua mano alcune cose piccole, fatte à modo di minio; nelle quali, come ch’hoggi forse paino anzi goffe, che altrimenti, si vede quanto per sua opera acquistasse di bontà il disegno.


Fine della Vita di Cimabue.