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Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Olimpia IV

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Ode Olimpia IV

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Olimpia IV
Le odi siciliane - Ode Olimpia XII Le odi siciliane - Ode Olimpia V
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ODE OLIMPIA IV

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Questa odicina è del 452; il fasto delle corti siciliane che aveva abbagliata la fantasia di Pindaro è tramontato da un pezzo.

Abbiamo già accennato alla sorte di Camarina. Conquistata dai Siracusani, nel 552, e ripopolata da Ippocrate, era stata nuovamente distrutta da Gelone nel 484, per essere poi rioccupata e riedificata dai Geloi nel 461-60.

Pindaro aveva settant’anni: e ben maturo sembra fosse anche il vincitore, se a consolarlo Pindaro ricorda il mito di Ergino figlio di Climeno. Il quale Ergino era uno degli Argonauti, e sembra non fosse tanto giovine, e aveva i capelli bianchi. Allorché durante il viaggio di ritorno dalla famosa spedizione, prese parte alle gare di Lemno (cfr. P. IV), le femmine lemnie, nel vederlo cosí brizzolato, lo beffarono un po’. Ma Ergino vinse, e, andando a riscuotere il premio, si vendicò dando alla regina Issipile una pungente risposta.

Questa ode senile, garbata, ma incolore e non molto armonica, chiude assai tristamente il luminoso ciclo delle odi siciliane. La Olimpia Va, che segue, non sembra autentica. [p. 157 modifica]


A PSAUMIDE DA CAMARINA

VINCITORE COL CARRO TIRATO DA MULE IN OLIMPIA


Strofe

O supremo Signor de la folgore dal pie’ non mai stanco,
o Zeus, l’Ore tue
che danzano al tinnulo sònito
di cétere, me testimone
mandâr dagli altissimi agoni.
Se gli ospiti compion belle opere, esultano subito i buoni
pel fausto annunzio.
Su, figlio di Crono, che domini l’Etna,
la mora ventosa dell’orrido
Tifon centocípite,
accogli, mercè de le Càriti,
l’olimpia canzon trionfale


Antistrofe

che perpetua luce diffonde su somme virtudi.
Giunge essa dai cocchi
di Psaumi, che in Pisa, precinto
d’ulivo, di gloria procaccia
coprir Camarína. Benevolo
agli altri suoi voti si mostra il Nume: che molto, io lo affermo,
ei vale a domar corridori,

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e prodigo è agli ospiti tutti, e cordiale,
e volge il pensiero alla pace,
ch’è bene alla patria.
Non macchio il mio dir di menzogna:
ché prova ai mortali è il cimento;


Epodo

che un dí da lo spregio
salvò tra le femmine lemne
il figlio di Clímeno.
Coperto de l’arme di bronzo, vinse egli nel corso.
E disse ad Ipsípile, quando moveva a recingere il serto:
«Cosí son veloci i miei piedi;
son pari le mani ed il cuore.
Sovente, anche ai giovani crescono
in tempo non debito canuti capelli».