Il vicario di Wakefield/Capitolo decimosecondo

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Capitolo decimosecondo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo decimosecondo
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CAPITOLO DECIMOSECONDO.


La fortuna sembra decisa di voler umiliare la famiglia di Wakefield. Le mortificazioni, non di rado, riescon più amare delle disgrazie reali.

Tornati noi a casa, la notte fu spesa in mettere in campo astuzie per future conquiste. Debora mia operò tutta la di lei sagacità in vedere a quale delle due figliuole convenisse la carica migliore, ove saria più grande l’opportunità di conversare con persone di garbo. L’unico ostacolo che attraversasse il nostro ingrandimento, era l’ottenere la raccomandazione dello scudiero; ma egli ci aveva già dati troppi segni d’amicizia, sicchè il dubitarne era omai vano. Neppure in letto mia moglie cessava dal rifriggere questi cavoli. “Orsù, Carlo mio, diciamolo tra di noi; non ti par egli che si sia tratto per noi bel profitto da questa giornata?” — “Maisì,” risposi io, non sapendo che dire. “E come? tu non mi sbadigli che un maisì? Dico che dessa fu impiegata benissimo. Supponi che le fanciulle giungessero a contrarre amicizie ragguardevoli in città, non ti piacerebbe egli forse? E non so io di certo che Londra è un vivaio d’ogni sorta di mariti? In oltre sai bene che de’ miracoli se ne veggono ogni dì: e se gentildonne di sì alto affare s’innamorarono delle mie zitelle, che non faranno i cavalieri? Siamo a quattr’occhi, e ti protesto che ho della stima molta per madama Blarney che è tanto compita; tuttavolta madamigella Carolina Guglielmina Amalia Skeggs mi ruba il cuore. Hai veduto com’io le ho còlte a volo quando si parlò d’impieghi in città? E ti basterà l’animo di dire che io non sappia far di tutto per la mia famiglia?”

“Sì, sì,” diss’io, senza essere determinato ad alcun pensiero; “Dio ’l voglia ch’elle vadan col meglio di qui a tre mesi!” Questo era un mio solito modo di dire col [p. 71 modifica]quale io intendeva d’imprimere nella mente della moglie un gran rispetto per la sottigliezza del mio ingegno: perchè se le fanciulle ottenevano l’intento, eccoli avverato un voto felice; ma se riusciva qualche sciagura, lo si poteva guardare come una profezia. Tutta questa conversazione però non fu che il preludio d’un altro di lei disegno, di cui già mi sentiva correr nell’animo la paura. Dovendo ora noi nel mondo camminare col capo un pocolino più alto, si tramava niente meno che di vendere a un mercato prossimo il puledro oramai invecchiato, e comperare in vece sua un cavallo che fosse da sella a un tempo e da timone, e comparisse non male quando si andava in chiesa o a far visite. A prima giunta io mi vi opposi gagliardamente: ma la parte contraria era gagliarda anch’essa oltre misura; e quanto più io infievoliva, ella più rizzava la cresta, sicchè in ultimo fu forza dargliela vinta.

Cadendo il dì vegnente la fiera, voleva intervenirvi io stesso; ma mia moglie mi cacciò nel capo ch’io avessi una infreddatura, e non vi fu verso ch’ella mi lasciasse uscir di casa; dicendo che Mosè era un ragazzo accortissimo, che in comperare e vendere ei stava sul vantaggio mai sempre, che le nostre migliori contrattazioni erano le sue perchè egli sapeva in buon’ora porre il prezzo alto, poi scemarlo, e così nel comperare tenere a bada finchè facesse util mercato.

Teneva io pure gran conto del buon senno di mio figliuolo, e volentieri gli affidai questa incumbenza. La mattina appresso, adunque, vidi le sorelle tutte intente in allestire Mosè per la fiera, acconciargli il capo, spazzolargli le fibbie, e guernirgli di spilletti il cappello. Liscio ch’egli fu ed in punto, lo vedemmo festosamente salire sul puledro con una sportella davanti nella quale doveva riportarci drogherie. Vestiva un abito di panno così detto folgore e tuono, che quantunque accorciato assai, non pareva poi tanto sdrucito da lo si dovere dimettere. Il farsetto era verdegiallo, e le sorelle gli avevano annodata la [p. 72 modifica]zazzera con un largo nastro nero. Lo accompagnammo fuor della porta alcuni passi gridandogli dietro buon dì ti sia, finchè lo perdemmo di vista.

Partito egli appena, ecco il canovaio del signor Thornhill per congratularsi con noi della nostra buona ventura, come quegli che aveva udito il suo giovane padrone parlar di noi con gran riverenza. Sembrava che la fortuna non volesse venire scompagnata; perchè un altro famiglio della stessa casa sopraggiunse con un viglietto per le mie figliuole, nel quale era scritto che le due gentildonne avevano avute dal signor Thornhill così soddisfacenti informazioni di tutti noi, di maniera tale che speravano, mercè pochi altri riscontri, di rimanere interamente appagate. Allora esclamò mia moglie: “Lo so ben io che non è così facil cosa il por piede nelle famiglie dei grandi; ma se tale vi scappa dentro, e’ può chiuder gli occhi e dormire, come dice il nostro Mosè.” A lei pareva d’aver detta una bella facezia, perchè le figliuole le fecero eco con una risata; e tanta fu la gioia della buona donna per quell’imbasciata, che poste le mani in tasca regalò al messo un mezzo paolo.

Posciachè fu stabilito quello dover essere per noi giorno di visita, scoprimmo sull’uscio il signor Burchell, il quale era stato alla fiera, e recava a ciascuno de’ miei bambini un soldo di bericuocolo che mia moglie prese cura di metter loro in serbo, per darglielo poi volta per volta a pezzuoli. Egli portò anche per le fanciulle un paio di scatole da porvi cialde, tabacco, nèi, e danari pure, se ne avevano. Debora s’incapriccì, secondo il solito, d’una borsa di pelle di donnola, come bene augurosa; e la volle, a patto però di pagarla.

Il signor Burchell non era per nulla scaduto dalla nostra stima, comecchè il di lui contegno villano d’ieri ci fosse spiaciuto e senza inframmettere indugio io gli manifestai la nostra felicità, chiedendone il parer suo; perchè, quantunque restii quasi sempre a seguire gli altrui [p. 73 modifica]avvisi, eravamo larghi del domandarli. Nel leggere il viglietto delle due gentildonne egli diè un crollo al capo pispigliando che un affare di tal fatta chiedeva la massima circospezione. Questa diffidenza non garbava tanto a mia moglie, la quale voltatasi a lui “Non ho mai creduto,” disse, “di vederti sì pronto a far contro a me ed alle figliuole. Tu se’ più cauto del bisogno; ma balordi noi, che volendo cercar consiglio, dovremmo appigliarci a persone che n’avessero già fatto buon uso elle stesse.” — “Qual che ella sia stata la mia vita, o madama,” soggiunse egli, “non è da discutersi adesso; abbenchè io il quale mai non mi attenni alle altrui ammonizioni, istruito dalla mia propria coscienza, dovrei darle meglio d’ogni altro.” Temendo io non una tale risposta ne traesse dietro cento, e si supplisse poi con delle ingiurie al poco intelletto, voltai l’argomento, e finsi di stupire come non fosse ancor ritornato il mio figliuolo quando la sera n’era già quasi vicina. “Non ti dar pena di ciò,” disse mia moglie; “sta’ certo ch’egli sa fare i fatti suoi, nè ch’egli va sì facilmente a veder pescare colla gatta. L’ho veduto io far tali negozi da sbalordire chicchessia; ed a proposito di ciò, ti voglio raccontare una istoriella per cui ti smascellerai dalle risa. Ma véllo véllo, egli viene egli stesso Mosè senza cavallo e colla sportella in ispalla.”

In così dire, ecco avanzarsi Mosè lentamente, a piedi, grondante di sudore sotto il peso della sportella ch’egli si era allacciata attraverso il dosso a modo di un merciaiuolo. “Ben giunto, ben giunto, Mosè nostro; che ci hai tu recato dalla fiera?” — “Vi ho arrecato me stesso,” rispose il figliuolo gittando uno sguardo astuto e raccomandando alle braccia della serva la sportella. “O Mosè mio,” gridò mia moglie, “già questo lo veggiamo; ma dov’è il cavallo?” — “L’ho venduto per tre lire, cinque scellini e due soldi.” — “Bene davvero, buon ragazzo: lo sapeva io che ne avresti fatto partito grasso. Sia detto tra di noi; ma tre lire, cinque scellini e due soldi non [p. 74 modifica]sono scarso guadagno; fuori presto le monete.” — “Non ho meco nè una sola crazia; ho speso tutto in contrattazioni, ed eccovi quel che ho comperato.” Cavò di seno un fardello di dodici dozzine di occhiali verdi cassati in argento cogli astucci di zigrino. “Che diamine festu mai?” replicò mia moglie con voce fioca. “E tu, spacciato il puledro, non ci hai portate a casa che dodici dozzine d’occhiali? Guarda miseria! solamente questi occhialacci verdi!” — “Ma, cara madre, perchè non vuoi ascoltar ragione? se non fosse stato vilissimo il prezzo, non ne avrei fatta la compera. Le sole incassature vagliono il doppio.” — “Valgono un fico,” gridò mia moglie in collera: “scommetto che non ne ricavi la metà, se li vendi per argento rotto a cinque scellini l’oncia.” — “Non ti dar pensiero, donna mia,” diss’io, “della vendita delle incassature, perchè non è che rame inargentato.” — “Trista me! che di’ tu mai? non argento? non son d’argento le incassature?” — “No, in fede mia; lo sono quanto la tua tegghina.” — “Dunque s’è dato via il puledro per sole dodici dozzine d’occhiali verdi legati in rame cogli astucci di zigrino? Al diavolo con codeste ciarpe! L’hanno cuculiato il pecorone; e’ doveva badare meglio a’ fatti suoi e conoscere i tristi.” — “Moglie cara, tu t’inganni. Come doveva egli conoscerli?” — “Poh! alle forche il babbuino! Portarmi di sì fatte porcherie! Le getterei al fuoco, se le mi stessono in mano.” — “Pazzia davvero sarebbe; perchè, quantunque siano di rame, è meglio avere degli occhiali di rame che uno zero.”

Il povero Mosè intanto trasecolava, accorgendosi d’essere stato colto nel laccio da un furbo truffatore, che, squadratolo dal capo al piede, lo aveva rinvenuto uomo da uccellare a fave. Gli domandai come fosse ita la cosa.

“Venduto il cavallo, io me ne andava su e giù pel mercato in cerca d’un altro; e un uomo d’aspetto grave mi trasse ad una baracca sotto pretesto d’averne egli uno da vendere. Quivi incontrai un’altra persona ben [p. 75 modifica]vestita che cercava di tôrre ad imprestito venti lire siccome bisognosa di danari, impegnando questi occhiali e dicendo che li dava per metà del loro valore. Il primo gentiluomo che già mi faceva da amico, mi soffiò nell’orecchio ch’io li comperassi e non mi lasciassi sfuggire di mano la fortuna. Mandai ad avvertire il signor Flamborough; venuto il quale, eglino lo infinocchiarono istessamente; e così entrambi c’inducemmo a pagare i nostri quattrini per dodici dozzine ciascheduno.”