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il paradiso delle signore

vi, la Desforges s’era fermata, stupefatta dalla vita ardente che animava quel giorno l’immensa navata. Ai suoi piedi la folla continuava a incalzarsi, e la doppia corrente di quelli che entravano ed uscivano si faceva sentire anche nella sezione delle sete. Folla ce n’era tuttavia d’ogni sorta; ma l’ora inoltrata portava già piú signore fra le borghesucce e le massaie; molte in lutto, con i loro veli lunghi; e sempre delle balie, venute chi sa come, che proteggevano i bambini col gomito proteso. E quei cappelli di tutti i colori, quelle teste bionde e nere, andavan su e giú per la galleria confusamente, tra il vivido splendore delle stoffe.

La Desforges non vedeva intorno che cartelloni con le cifre cubitali staccantisi crudamente sulle indiane colorite, le lucide sete, le lane cupe. Dietro le colonnette di nastri scomparivano a tratti le teste; un muro di flanella si avanzava come un promontorio dietro cui rumoreggiasse un altro mare: dappertutto gli specchi riflettevano infiniti magazzini con brandelli di mostre e frammenti di persone, visi alla rovescia, mezze spalle e mezze braccia. A destra e a sinistra le gallerie laterali s’aprivano, col candore niveo della biancheria e le svariate tinte delle maglie, allungandosi nei raggi che piovevano dalle aperture a cristalli, sotto le quali la folla non era piú se non un pulviscolo umano. Poi quando la Desforges alzava gli occhi, lungo le scale, sui ponti sospesi, intorno alle ringhiere, mirava un viavai continuo e fragoroso di gente che si disegnava in nero sul fondo dei cristalli opachi; grandi lumiere dorate pendevano dal soffitto; le balaustrate apparivano pavesate di tappeti, di sete ricamate, di stoffe intessute con fili d’oro:


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