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Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/436

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424 CAPITOLO DECIMOSESTO

brancolando, sussultando, un appoggio, indietreggiò di un passo verso l’albero al cui piede si era seduta, inciampò nelle proprie vesti, portò rapidamente la mano indietro, al tronco dell’albero, rimase in piedi, a capo basso. Massimo, slanciatosi avanti per sostenerla, si arrestò. Vedeva ch’era lei, non poteva crederlo, si levò il cappello, stupidamente, senza sapere che si facesse. Ella porse il viso smorto, rigato di lagrime, il petto ansante, lo fissò ancora. Quegli occhi parlavano, dicevano amore amore, dolore dolore. Egli vedeva e non poteva credere. Fece un atto di saluto, a caso, come per partirsi. Ella porse daccapo il viso e le sue labbra si contrassero disordinatamente in una voce muta. Massimo volle pensare ch’ell’avesse necessità di qualche aiuto, di qualche indicazione come un viandante qualsiasi, e vergognasse di doversi rivolgere proprio a lui. Nello stesso tempo gli balenò una spiegazione di quella presenza e non dubitò che fosse vera.

«Ella è qui con donna Fedele?» diss’egli. E si mise subito sulle difese. Certo donna Fedele aveva fatto questo, aveva persuasa la ragazza, le si era imposta. Non vide l’assurdità della supposizione, afferrò un’apparenza di vero, il solo modo possibile di spiegare come Lelia fosse lì davanti a lui. Ma Lelia, chinato il viso, accennò di no.

«Con Suo padre?» esclamò il giovine, più stupefatto che mai, sapendo di supporre una cosa impossibile. Lelia, sempre col viso basso e gli occhi a terra, accennò ancora di no.

Allora, finalmente, nell’attitudine vergognosa, umile di lei, Massimo intravvide il vero, il perchè di quegli slanci repressi della bella persona verso di lui. Ma non ardì ancora dire una parola, fare un atto che rispondesse al dolcissimo vero. Porgendosi a lei palpitante, quasi cieco di emozione, mormorò: