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Pagina:Novelle lombarde.djvu/62

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d’aver insultato un ucciso, e bramoso di riparare quella scappata, si precipitò attraverso ai passi dell’assalitore, mentre i buli del Sirtori tenevano testa agli altri, sinchè il loro signore rinvenuto dallo stupore, gridò a coloro in tono di comando: — Abbasso le armi».

Furono parole magiche. Il guardacaccia si arrestò, ed, o fosse l’abitudine di obbedire ai cenni signorili, o la simpatia naturale e sovente disastrosa che pruova l’uomo per un esito fortunato, o l’irresolutezza che ben egli avverti nei camerata, i quali, vili come tutti gli arroganti, al mirar caduto colui che di sua ombra copriva le loro ribalderie, si mostravano più disposti a pensare ai casi proprj che a vendicare gli altrui, alzò la bocca dello schioppo guardò di traverso il ferito, scosse le spalle e gridatogli — Ben ti sta; n’hai fatte abbastanza», soggiunse ai compagni: — Seguitemi».

L’occhio di don Alfonso, che sopra di lui stava fissato, come lo vide dar volta, prese il luccicar cristallino e disperato di chi sente lo schianto del ramo cui s’era ghermito dirupando da una balza. De’ cacciatori, alcuni guardandosi in faccia e dicendo, — Qui la più sicura è andarsene fuori di ballo», col pretesto di correre chi pel chirurgo, chi pel prete, se la batterono per la campagna. Gli altri si drizzarono verso il castello col guardacaccia; che tra via discorrendola de’ fatti loro, diceva: — Sapete che? Il morto in sepoltura e il vivo all’osteria. Qui bisogna cercare salvezza e pagnotta per noi. In palazzo c’è degli zecchini a pala. Nemmeno il diavolo non ci tiene dall’andarci, e far bottino del bello e del buono. Quell’ammazzasette non verrà