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Pagina:Bruno - Cena de le ceneri.djvu/143

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dialogo quinto 129

dan fuori. E noi medesmi, e le cose nostre andiamo e vegniamo, passiamo e ritorniamo, e non è cosa nostra, che non si faccia aliena, e non è cosa aliena, che non si faccia nostra. E non è cosa, de la quale noi siamo, che tal volta non debba esser nostra, come non è cosa, la quale è nostra, de la quale non doviamo tal volta essere, se una è la materia de le cose, in un geno, se due sono le materie, in dui geni: perchè ancora non determino, se la sustanza e materia, che chiamiamo spirituale, si cangia in quella, che diciamo corporale, e per il contrario, o veramente no. Così tutte cose nel suo geno hanno tutte vicissitudini di domino e servitù, felicità ed infelicità, di quel stato, che si chiama vita, e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male. E non è cosa, a la quale naturalmente convegna esser eterna, eccetto che a la sustanza, ch’è la materia, a cui non meno conviene essere in continua mutazione. De la sustanza soprasustanziale non parlo al presente, ma ritorno a ragionar particularmente di questo grande individuo, ch’è la nostra perpetua nutrice e madre, di cui dimandaste, per qual cagione fusse il moto locale. E dico, che la causa del moto locale, tanto del tutto intiero, quanto di ciascuna de le parti, è il fine de la vicissitudine, non solo perchè tutto si ritrovi in tutti luoghi, ma ancora perchè con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme: per ciò che degnissimamente il moto locale è stato stimato principio d’ogni altra mutazione e forma: e che, tolto questo, non può essere alcun altro. Aristotele s’ha possuto accorgere de la mutazione secondo le disposizioni e qualità, che sono ne le parti tutte de la terra; ma non intese quel moto locale, ch’è principio di quelle. Pure nel fine del primo libro


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