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Pagina:Le mie prigioni.djvu/229

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Capo LXIII.

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Speravamo — e così infatti accadde — che parlando più piano ci potremmo sentire, e che talvolta capiterebbero sentinelle pietose, le quali fingerebbero di non accorgersi del nostro cicaleccio. A forza d’esperimenti, imparammo un modo d’emettere la voce tanto dimesso, che bastava alle nostre orecchie, ed o sfuggiva alle altrui, o si prestava ad essere dissimulato. Bensì avveniva a quando a quando che avessimo ascoltatori d’udito più fino, o che ci dimenticassimo d’essere discreti nella voce. Allora tornavano a toccarci urla, e picchiamenti agli usci, e, ciò ch’era peggio, la collera del povero Schiller e del soprintendente.

A poco a poco perfezionammo tutte le cautele, cioè di parlare piuttosto in certi quarti d’ora che in altri, piuttosto quando v’erano le tali guardie che quando v’erano le tali altre, e sempre con voce moderatissima. Sia eccellenza della nostr’arte, sia in altrui un’abitudine di