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Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/122

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110 CAPITOLO TERZO

signorina. Una mattina la cameriera era venuta stravolta a ordinare un caffè fortissimo perchè la signorina aveva fatta la pazzia, con tutti i fiori che voleva in camera la notte, di tener chiuse le finestre e credeva di morire dal mal di capo. La cuoca aveva detto allora:

«Vuole ammazzarsi, quell’anima!» La cameriera aveva risposto colle lagrime agli occhi: «Ma!...».

«Credo» soggiunse la buona signora Bettina «che tutto sarà perchè questo giovine era tanto amico del suo fidanzato e glielo farà venire in mente.»

«Cara» disse don Tita, «vu sì una macaca.»

Intanto don Emanuele pensava con animo grato al visibile favore della Provvidenza per le mire sue e dell’arciprete. In fatto nè l’uno nè l’altro aveva mirato a fare della siora Bettina uno strumento unico e diretto della stessa Provvidenza. Molto soddisfatti di possedere un’arma contro l’amico di don Aurelio, il famigerato Alberti, avevano ideato che la siora Bettina confidasse alla sua fantesca il «potàcio» dell’Alberti colla signora maritata di Milano, nella fiducia che la fantesca, della quale conoscevano l’amicizia con quella cuoca, l’avrebbe confidato e costei e che costei l’avrebbe riferito alla cameriera. Ed ecco che la fiducia diventava certezza; il tubo ideato esisteva già, lavorava già per la condotta di segreti aeriformi dell’identica specie.

«Allora» cominciò il virgulto prelatizio con un’aria innocente «capisco che fra la Sua fantesca e la cuoca di casa Trento...»

Fu bussato all’uscio.

«Avanti!» fece il bonario don Tita.

Il cappellano ammutolì e abbassò gli occhi acquosi senza dare alcun altro segno del proprio malcontento per la interruzione consentita dal Superiore. Era proprio la serva della Fantuzzo che veniva in cerca della sua padrona. Don Tita, illuminato nello spirito da un’idea