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254 il ragazzo


Messer Cesare. Il sangue mi s’è aghiacciato.

Ciacco. Come sarete appresso Livia, egli ritornerá tutto di fuoco.

Messer Cesare. Tu m’hai inteso.

Ciacco. Se io v’ho apparecchiato per questa notte un mar di dolcezza, non vi posso io dare un poco d’amaro, burlando?

Messer Cesare. Puoi far di me come di cosa tua. Or dunque va’ per lui, Valerio. E se, per caso, il signor Fabrizio volesse che egli vi rimanesse, fagli la imbasciata mia.

Valerio. Padrone, io il dirò pure, si ben v’andasse la vita. Voi avete perduto il cervello.

Messer Cesare. Che ti par, Ciacco, della libertá che hanno meco i miei servidori galanti?

Valerio. Intendete s’egli è cosi.

Messer Cesare. Vuole ancora allegarmi le ragioni!

Valerio. Ora voi ve n’andate in corso. La padrona mia è nel letto con un sacco di febbre addosso. Camilla è garzona e non ha tutto quello intelletto che le bisognarebbe avere. Se io mi parto, chi volete che resti in guardia della casa? Parvi che sia da fidarsi la giovane al governo d’una fante?

Messer Cesare. Sapeva bene io che costui fuggiva di far quattro passi perché il buono uomo ha paura di non dormir questa notte. Ma voglio che tu vi vada, intendimi tu?

Valerio. Io ve andrò; e, avengane che può, il danno sará vostro.

Messer Cesare. Va’ pure.

Ciacco. I servidori hanno essi a essere padroni?

Valerio. Va’ alle forche, tu.

Ciacco. Il cane è rabbioso. Bisogna incatenarlo o ucciderlo.

Messer Cesare. Orsú! Non star piú. E odimi.

Valerio. Che ci è?

Messer Cesare. Se egli volesse portar la spada, digli che la ponga giú.

Ciacco. Ah! ah! Temete della pregione?

Messer Cesare. Che so io? Non vorrei avere a gridar col governatore o a pregare il papa.