Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. II, Laterza, 1912.djvu/435

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atto quinto 423

          Cambio. Come «parvemi»?
          ch’el veddi entrar in casa co’ mie’ propri
          occhi; e non sol in casa, ma anco in camera,
          ch’ero sotto la scala. Ma ci è meglio.
          Fazio. Iddio ci aiuti.
          Cambio. No’ n’abbiam bisogno.
          Odi pure. I’ m’accosto a l’uscio e chiamolo,
          cosi, un po’ sotto boce; ed ei risposemi.
          Fazio. Egli era forse un altro.
          Cambio. I’ dico ei proprio;
          che lo conosco, alla boce, benissimo.
          Fazio. Be’: ’nfin apristu l’uscio?
          Cambio. L’uscio? Die me ne
          guardi! No, no. I’ vo’ questa suzzachera
          lasciare ad altri.
          Fazio. Dunque temi?
          Cambio. Diavolo,
          ch’i’ temo! Ti par caso questo, Fazio,
          da non temer? E’ m’entrò allor un triemito
          nell’ossa tal ch’i’ ne sto ben un secolo.
          Cacasangue! I’ non vo’ scherzar co’ diavoli.
          Che so io? Se n’uscissi qualche spirito
          che mi facessi dietro qualche giachera,
          ognun di me si riderebbe. Stievisi
          quanto gli pare.
          Fazio. Be’: ’nfin, che rimedio
          sará il nostro? Debb’io questa perdita
          soportare? e tu in tante tenebre
          tener la casa tua?
          Cambio. Vo’ ch’ai vicario
          dell’arcivescovo andiamo e poniamoli
          una querela per uom che ’l demonio
          sappi, per arte, a suo’ posta costrignere.
          Fazio. E che vuo’ tu che faccia in ciò ’l vicario?
          Cambio. Come «che vo’ ch’e’ faccia»? È suo uficio.
          Fazio. Ah! Tu di’ ben; egli è ver. Se ei giudica