Cambio.Come «parvemi»?
ch’el veddi entrar in casa co’ mie’ propri
occhi; e non sol in casa, ma anco in camera,
ch’ero sotto la scala. Ma ci è meglio. Fazio.Iddio ci aiuti. Cambio.No’ n’abbiam bisogno.
Odi pure. I’ m’accosto a l’uscio e chiamolo,
cosi, un po’ sotto boce; ed ei risposemi. Fazio.Egli era forse un altro. Cambio.I’ dico ei proprio;
che lo conosco, alla boce, benissimo. Fazio.Be’: ’nfin apristu l’uscio? Cambio.L’uscio? Die me ne
guardi! No, no. I’ vo’ questa suzzachera
lasciare ad altri. Fazio.Dunque temi? Cambio.Diavolo,
ch’i’ temo! Ti par caso questo, Fazio,
da non temer? E’ m’entrò allor un triemito
nell’ossa tal ch’i’ ne sto ben un secolo.
Cacasangue! I’ non vo’ scherzar co’ diavoli.
Che so io? Se n’uscissi qualche spirito
che mi facessi dietro qualche giachera,
ognun di me si riderebbe. Stievisi
quanto gli pare. Fazio.Be’: ’nfin, che rimedio
sará il nostro? Debb’io questa perdita
soportare? e tu in tante tenebre
tener la casa tua? Cambio.Vo’ ch’ai vicario
dell’arcivescovo andiamo e poniamoli
una querela per uom che ’l demonio
sappi, per arte, a suo’ posta costrignere. Fazio.E che vuo’ tu che faccia in ciò ’l vicario? Cambio.Come «che vo’ ch’e’ faccia»? È suo uficio. Fazio.Ah! Tu di’ ben; egli è ver. Se ei giudica