Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. I, 1946 – BEIC 1727075.djvu/44

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RISPOSTA DELL’AUTORE


La lettera, che ella ha favorito scrivermi sulle mie tragedie, da me ricevuta ieri dí quattro corrente, mi è sembrata giudiziosa, erudita, ragionata, e cortese.

Finora non era stato detto né scritto niente sovr’esse, che meritasse riguardo o risposta; ho ragione d’insuperbirmi che un primo scritto sia tale, da togliere materia forse ed ardire a chi ne volesse fare un secondo. E se le tragedie mie null’altro avessero di buono, che di essere state cagione di una sí dotta lettera, l’Italia pure sommamente me ne dovrebbe esser tenuta; poiché in essa pienamente e ordinatamente le ragioni della tragedia si annoverano e distinguono da quelle del dramma musicale; cosa, benché non nuova a chi sa di tal’arte, nuovissima pure per il maggior numero dei nostri Italiani: e nello stesso tempo ella v’insegna, tacitamente coll’esempio, come si debba censurare senza fiele, e con acume; lodare con discernimento, e senza viltá; e l’uno e l’altro far sempre con doviziosa copia di luminose ragioni. Dalla sua lettera dunque mi pare che n’abbiano a ricavare i poeti tragici dei lumi assai; i lettori di tragedie, del gusto non poco; ed i censori di esse, della civiltá. Molto mi par grande in bocca di chi pure potrebbe asserire, la cosa è cosí, il contentarsi di dire: cosí mi pare. Tale è il linguaggio di chi sa; ma di chi crede sapere è ben altro. Tutte quelle formole cattedratiche assolute, non va, non sta, non si dice, e simili, sono però la base della censura letteraria italiana: quindi ella è bambina ancora; e lo sará, credo, finché non vengano abolite queste formolette, figlie dell’ignoranza spesso, della invidia talvolta, e dell’ineducato orgoglio sempre.

Ma passo ad individuare brevemente per quanto potrò le varie parti della di lei lettera.

Ciò ch’ella dice del teatro inglese, e francese, a me pare sanamente giudicato, benché queste due nazioni per certo non vi si