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atto quinto 51
son rotte al fin; mi si ridesta in petto

la speranza, e la gioja, in bando poste
dalla mesta e severa tirannía.
Ma viene Augusto. Oh quanto a lui fia grata,
e quanto utile a me, la nuova acerba!


SCENA SECONDA

Augusto, Cleopatra, Ismene, Diomede.

Cleop. Per te, signor, ogni mio affetto è vinto;

tacque il rimorso, e la pietá si tacque;
e, d’un sol colpo, per mia mano estinti
son d’Augusto, e di Roma, oggi i nemici:
piú non respira Antonio; ed un possente
motor mi spinse a tanto... E che?... gli sguardi
biechi, attoniti volgi, e fissi al suolo?
Confuso, mesto, ed agghiacciato, ascolti
li detti miei, quando di gioja il petto
ti dovrían inondar?... Che fu?...
Augus.   Regina;
io men grande sarei, se non piangessi
di un infelice, e pur sí grande eroe,
la deplorabil morte. Ah! sí, che Antonio,
un sí invitto guerrier, benché nemico,
d’un piú nobile fine era ben degno.
Cleop. Qual insolita in te favella è questa?
Pria che cadesse, nol dicesti grande:
quel che vivo aborristi, or piangi estinto?
Come hai tu l’alma fluttuante ognora,
fra la falsa virtude, e ’l vizio vero?
Ti mostri ad arte qual eroe sublime,
ma ti fe’ la natura un vil tiranno;
sotto un finto dolore invan t’ascondi. —
Augus. Fu mio nemico, è ver, nemico odioso