Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/347

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paradiso - canto vii 341

     La divina bontá, che da sé sperne
ogni livore, ardendo in sé, sfavilla
66sí che dispiega le bellezze eterne.
     Ciò che da lei senza mezzo distilla
non ha poi fine, perché non si move
69la sua imprenta quand’ella sigilla;
     ciò che da essa senza mezzo piove
libero è tutto, perché non soggiace
72a la virtute de le cose nove;
     piú l’è conforme, e però più le piace,
ché l’ardor santo ch’ogni cosa raggia
75ne la piú somigliante è piú vivace.
     Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura; e s’una manca,
78di sua nobilitá convien che caggia.
     Solo il peccato è quel che la disfranca,
e falla dissimile al sommo bene,
81per che del lume suo poco s’imbianca;
     ed in sua dignitá mai non riviene,
se non riempie dove colpa vòta,
84contra mal dilettar, con giuste pene.
     Vostra natura, quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
87come di paradiso, fu remota;
     né ricovrar potiensi, se tu badi
ben sottilmente, per alcuna via,
90senza passar per un di questi guadi:
     o che Dio solo, per sua cortesia,
dimesso avesse; o che l’uom per se isso
93avesse sodisfatto a sua follia.
     Ficca mo l’occhio per entro l’abisso
de l’eterno consiglio, quanto puoi
96al mio parlar distrettamente fisso.
     Non potea l’uomo ne’ termini suoi
mai sodisfar, per non potere ir giuso
99con umiltate, obediendo poi,