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378 capitolo xvii.

qua; l’azzurro si alterna al verde; il brivido dell’onda all’immobilità della terra. Passammo per un tratto lungo le rive di un lago pittoresco, il lago d'Ubinsk: una distesa di sereno. Attraversammo su comode barche numerosi fiumi, il Tschulym presso al grosso villaggio di Pulym (un altro Tschulym che non ha nulla a che fare con quello di Atschinsk), il Kargat presso a Kargatsk, altri minori.

Nella steppa abbiamo rivisto le yurte. Erano kirghise ma non differivano in nulla da quelle mongole; quelle cupolette rappresentano probabilmente l’unica forma di edificio che resista agli impetuosi venti delle pianure: le case di tutti i popoli che amano lo spazio e la solitudine.

Verso le sette arrivavamo a Kainsk, circondata da decine di mulini a vento le cui ampie ali immobili sull’orizzonte libero sembravano grandi croci d’un cimitero di giganti. A Kainsk nessuno ci aspettava così presto. Entrammo quasi inosservati perchè v’era una fiera, e in mezzo alla fiera un circo equestre, un carosello, un baraccone di fenomeni viventi; suonavano organi e fanfare; vociavano i gridatori; e tutto il popolo aggruppato intorno a quei recinti meravigliosi volgeva le spalle alla strada per la quale arrivavamo. Ma dei soldati ci videro, si volsero, chiamarono i compagni, e in un momento la folla si trovò come ad un comando con le spalle verso i baracconi e i visi ammiratori rivolti a noi. Gli organi e le fanfare interruppero le loro armonie a mezzo, e i gridatori, dall’alto delle loro impalcature, ci guardarono con una curiosità ostile, come a dei rivali fortunati. Penetrammo per le vie deserte in cerca dell’albergo, e lo trovammo: il più meschino e il più sudicio albergo della Siberia.

Non riuscii a penetrare nell’ufficio telegrafico di Kainsk. Ne fui respinto come se fossi andato lì a lasciare, invece d’un dispaccio, una bomba di dinamite. Ero accompagnato da un giovinetto che s’era offerto di mostrarmi la strada. La porta dell’ufficio era chiusa. Bussammo, e una voce irritata gridò da dietro l’uscio: