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l'abate garzia 29

venzionale, ci trattava come suoi piccoli amici. Aveva la faccia rubiconda, sulla quale, come su certe botteghe, si poteva leggere: «Buon vino e buon cuore». Gli piaceva anche il rosolio; e zio a Natale e a Pasqua gliene mandava, con lo zucchero e il caffè. Li mi mancava un teatro ove potessi brillare. Non c’era cattedra. Egli stava seduto in mezzo a noi; le sue lezioni erano conversazioni, spesso interrotte da grossi pugni sulla tavola o da grosse prese di tabacco. Non c’erano conferenze, cioè a dire discorsi lunghetti e seguiti, dove si distinguesse l’ingegno. C’era li una serie di domande e di risposte, alle quali prendevano parte tutti, e i più pronti toglievano la parola agli altri, e ne veniva un vocio ingrato. In quella presa di assalto della parola mi sentivo soverchiato, e stavo li stizzoso, perché sentivo che avrei risposto meglio di quello sfacciato che mi troncava la parola in bocca. Talora, quando nel mondo mi vedevo soverchiare da certi presuntuosi ignoranti, pensavo alle conferenze dell’abate Garzia. Costui non prendeva troppo sul serio il suo ufficio, e chi non voleva studiare, non perciò si guastava la bile, e faceva un’alzatina di spalle come volesse dire: — Tanto peggio per te — .

Io continuava i miei studi filosofici, che mi piacevano assai, e poco teneva dietro a quella congerie di regole e di fatti, di cui il maestro non diceva le ragioni. Non fu possibile mettermi in capo la Procedura. Lessi molto il Digesto, come una bella collezione di massime e di sentenze, e ne presi occasione a rinvigorire il mio latino. Dove cominciai a vedere un po’ di luce, fu nello studio del Codice civile. Lessi con infinita curiosità i motivi che l’inspirarono; e quando parlava Napoleone mi appariva in una grandezza buia, che mi faceva terrore. Lessi molti commentatori francesi allora in fama, come Toullier, Delvincourt, Duranton.

Come suole avvenire, si strinse una certa amicizia con alcuni compagni più simpatici, e si disputava molto di filosofia e di dritto civile. C’era tra gli altri un tal Fortunato, che aveva una grande riputazione nella compagnia, e faceva da sopracciò. A me era antipatico con quella sua aria di superioritá; e lui che se n’era avvisto, mi punzecchiava e mi provocava. Una sera si