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262 | sonetti ascetici e morali |
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Umiltá lo intimorisce nel dir le lodi che vorrebbe.
Vogl’e ragion mi convit’e rechere
in voi laudar, valente e car valore;
ma picciul mio e gran vostro savere
4e troppo umilitá mi fa temore.
Lo picciul meo è non bene accompiere,
o’ la ragion de vostro orrato onore;
vostro grand’è, ch’omo saggial d’odere:
8chi lauda in faccia lo fragella in core.
E umiltá, cui è propio biasmare
e vil tener lo suo posseditore,
11sí come vil alt’om caro stimare,
temo vi metta laude in disamore;
perch’io mi taccio e vi lasso laudare
14a quel sommo etternal ben laudatore.
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A Meo Abbracciavacca, per rallegrarsi del suo ritorno.
Lo nom’al vero fatt’ha parentado:
le vacche par che t’abbian abracciato,
over che t’han le streg’amaliato,
4tanto da lunga se’ partit’o’ vado.
Zara dirieto m’ha gittato ’l dado:
ciò non serea se l’avesse grappato.
Allegro son, tu Meo che se’ tornato;
8se pelegrin fusti, ciò m’è a grado.
Non, credo, nato fusti da Pistoia,
ma da Pistoia fu la tua venuta,
11sí tardo movimento far ti sento.
Natura ten’pur di mulin da vento:
nun loco mostra sempre tua paruta;
14chi sol è a sé, non vive senza noia.