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I Vicerè 541


E la risposta, udita dagli impiegati, ripetuta in tutti gli ufficii, gli valse il plauso dei buoni democratici. Il cavaliere andò subito a riferirla al principe, per farsi un merito mettendogli in peggior vista il figliuolo. Ma nè questo, nè le insistenti preghiere gli valsero un soldo: suo nipote anzi pretendeva i quattrini anticipati, e l’accusava di sciocchezza, soprammercato, a causa del sequestro che s’era lasciato porre dallo stampatore.

Il cavaliere fece un nuovo passo presso la sorella Ferdinanda. Presentatosi in casa sua, gli chiusero l’uscio sul muso. Nondimeno egli fece parlare alla zitellona per ottenere un piccolo prestito che a lei non sarebbe costato nulla ed a lui avrebbe assicurato un pane: la vecchia rispose che neppure a vederlo crepar di fame gli avrebbe dato un soldo per stampare quelle «schifezze.»

Chiusa quest’altra via, don Eugenio andò dalla nipote Chiara. Trovò il marchese solo: sua moglie, la quale da un certo tempo non gli dava più requie, aveva un bel giorno fatto attaccare di nascosto e se n’era andata al Belvedere col bastardello per non tornarci più. Il cavaliere tentava di esporre i suoi guai al nipote; ma questi non finiva più di narrare i proprii, tutto ciò che quella pazza gli aveva fatto soffrire; talchè il povero Gentiluomo di Camera se ne andò via ancora una volta a mani vuote.

Allora, non sapendo più a qual santo votarsi, si rivolse a Giovannino Radalì. Col fiuto d’un bracco affamato, s’era accorto dell’amoretto fra i due cugini, specialmente dai discorsi di Baldassarre. Il maestro di casa era più che mai contento e soddisfatto della piega che prendevano le cose. L’intimità cresciuta tra le due famiglie era indizio che il principe approvava il matrimonio — giacchè Sua Eccellenza non faceva nulla senza un secondo fine — e il bene che i due giovani si volevano assicurava la loro unione. Se ancora non se ne parlava, la ragione andava cercata nei dispiaceri che il principe aveva avuto per via del testamento: siccome