Pagina:Leopardi, Giacomo – Operette morali, 1928 – BEIC 1857808.djvu/27

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dialogo di ercole e di atlante 21


e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e l’Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne nascesse una guerra.

Ercole. Per la parte mia non dubitare.

Atlante. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perché l’è guasta la figura.

Ercole. Via dalle un po’ piú sodo, che le tue non arrivano.

Atlante. Qui la botta non vale, perché ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento perch’è leggera.

Ercole. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.

Atlante. In veritá non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non balza d’in sul pugno piú che un popone.

Ercole. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.

Atlante. Corri presto in lá; presto ti dico; guarda per Dio, ch’ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei venuto.

Ercole. Cosí falsa e terra terra me l’hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se m’avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima, e mostra che tutti dormano come prima.

Atlante. Lasciamela, per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione.

Ercole. Cosí farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza