Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/368

Da Wikisource.


183.A la luce de l’ór, ch’alletta e ’nganna,
s’accosta incauta, e vi s’involve e gira.
Tosto che sente Amor tremar la canna,
con l’aita degli altri a sé la tira.
Presa è la Ninfa, e di dolor s’affanna,
giunge a l’arena, e si dibatte e spira.
A pena a l’aura è fuor de Tacque uscita,
che ’n acquistando il Sol, perde la vita.

184.Tra questi indugi ecco la notte oscura,
ch’imbruna il cielo, e discolora il giorno.
Allor ramingo, e pien d’alta paura
vassi lagnando, e non sa far ritorno.
Ma pur, riconosciuto a la scrittura,
è ricondotto al mio divin soggiorno.
Io per punirlo allor la verga prendo,
ed ei si scusa, e supplica piangendo.

183.«Pietá» diceami «affrena Tira alquanto,
pietá (madre) mercé, perdono, aiuto,
ch’anco sta man, non senza affanno e pianto,
dal severo maestro io fui battuto!
È fors’egli miracolo cotanto,
che sia per poco un fanciullin perduto?
Anco in piú ferma etá (né meraviglia)
perde per sempre Cerere la figlia.

186.Se questa volta il rio flagel deponi,
vo’ che novo da me secreto impari.
Insegnerotti, pur che mi perdoni,
a pescar cori, i quai ti son si cari.
Sappi, che non si fan tai pescagioni
senza l’ésca de l’ór ne’ nostri mari.
Pon’ Toro in cima pur degli ami tuoi,
e se ne scampa alcun, battimi poi.