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168 iii - catone in utica


Fulvio. E il senato la chiede: a voi m’invia
nuncio del suo volere. È tempo ormai
che da’ privati sdegni
la combattuta patria abbia riposo.
Scema d’abitatori
è giá l’Italia afflitta; alle campagne
giá mancano i cultori;
manca il ferro agli aratri; in uso d’armi
tutto il furor converte; e, mentre Roma
con le sue mani il proprio sen divide,
gode l’Asia incostante, Africa ride.
Catone. Chi vuol Catone amico,
facilmente l’avrá: sia fido a Roma.
Cesare. Chi piú fido di me? Spargo per lei
il sudor da gran tempo e il sangue mio.
Son io quegli, son io, che sugli alpestri
gioghi del Tauro, ov’è piú al ciel vicino,
di Marte e di Quirino
fe’ risonar la prima volta il nome.
Il gelido Britanno
per me le ignote ancora
romane insegne a venerare apprese.
E dal clima remoto
se venni poi...
Catone.  Giá tutto il resto è noto.
Di tue famose imprese
godiamo i frutti, e in ogni parte abbiamo
pegni dell’amor tuo. Dunque mi credi
malaccorto cosí, ch’io non ravvisi
velato di virtude il tuo disegno?
So che il desio di regno,
che il tirannico genio, onde infelici
tanti hai reso fin qui...
Fulvio.  Signor, che dici?
Di ricomporre i disuniti affetti
non son queste le vie: di pace io venni,
non di risse ministro.