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Odi! Giacché al tuo re
qual ossequio tu debba ancor non sai,
innanzi a me non favellar giammai.
Araspe. Ubbidirò.
SCENA III
Selene e detti.
Selene. Chi sciolse,
barbaro, i lacci tuoi? Tu non rispondi?
Dell’offesa reina il giusto impero
qual folle ardire a disprezzar t’ha mosso?
Parla, Araspe, per lui.
Araspe. Parlar non posso.
Selene. Parlar non puoi? (Pavento
di nuovo tradimento.) E qual arcano
si nasconde a Selene?
Perché taci così? (ad Araspe)
Araspe. Tacer conviene.
Iarba. Senti. Voglio appagarti. (a Selene)
Vado apprendendo l'arti
che deve posseder chi s’innamora:
nella scuola d’amor son rozzo ancora.
Selene. L’arte di farsi amare
come apprender mai può chi serba in seno
sí arroganti costumi e sí scortesi?
Iarba. Solo a farmi temer sinora appresi.
Selene. E né pur questo sai: quell’empio core
odio mi desta in seno, e non paura.
Iarba. La debolezza tua ti fa sicura.
Leon, ch’errando vada
per la natia contrada,
se un agnellin rimira,
non si commove all’ira
nel generoso cor.
Ma, se venir si vede
orrida tigre in faccia,
l’assale e la minaccia,
perché sol quella crede
degna del suo furor. (parte)