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atto secondo 129


Semira. Io tua seguace
sarò, se giova all’infelice Arbace.
Mandane. L’interesse è distinto:
tu salvo il brami, ed io lo voglio estinto.
Semira. E un’amante d’Arbace
parla cosí?
Mandane. Parla cosí, Semira,
una figlia di Serse.
Semira. Il mio germano
o non ha colpa, o per tua colpa è reo,
perché troppo t’amò.
Mandane. Questo è il maggiore
de’ falli suoi. Col suo morir degg’io
giustificar me stessa, e vendicarmi
di quel rossor che soffre
il mio genio real, che a lui donato
dovea destarlo a generose imprese,
e per mia pena un traditor lo rese.
Semira. E non basta a punirlo
delle leggi il rigor che a lui sovrasta,
senza gl’impulsi tuoi?
Mandane. No, che non basta.
Io temo in Artaserse
la tenera amistá; temo l’affetto
ne’ satrapi e ne’ grandi, e temo in lui
quell’ignoto poter, quell’astro amico,
che in fronte gli risplende,
che degli animi altrui signor lo rende.
Semira. Va’, sollecita il colpo;
accusalo, spietata;
riducilo a morir: però misura
prima la tua costanza. Hai da scordarti
le speranze, gli affetti,
la data fé, le tenerezze, i primi
scambievoli sospiri, i primi sguardi,
e l’idea di quel volto,