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Vegna Vesevo, e i suoi dolor raccontici:
Vedrem se le sue viti si lambruscano.
E se son li suoi frutti amari e pontici.
Vedrem poi che di nubi ognor si offuscano
Le spalle sue con l’uno e l’altro vertice:
Forse pur novi incendj in lui coruscano.
Ma chi verrà che de’ tuoi danni accertice,
Mergillina gentil, che sì t’inceneri,
E i lauri tuoi son secche e nude pertice?
Antiniana, e tu perchè degeneri?
Perchè ruschi pungenti in te diventano
Quei mirti che fur già sì molli e teneri?
Dimmi, Nisida mia; così non sentano
Le rive tue già mai crucciata Dorida,
Nè Pausilippo in te venir consentano;
Non ti vid’io poc’anzi erbosa e florida,
Abitata da lepri, e da cuniculi?
Non ti veggi’ or più ch’altra incolta ed orrida?
Non veggio i tuoi recessi e i di verticilli
Tutti cangiati; e freddi quelli scopuli,
Dove temprava amor suo’ ardenti spiculi?
Quanti pastor, Sebeto, e quanti populi
Morir vedrai di quei ch’in te s’annidano,
Pria che la riva tua s’inolmi o impopuli?
Lasso, già ti onorava il grande Eridano;
E ’l Tebro al nome tuo lieto inchinavasi:
Or le tue ninfe a pena in te si fidano.
Morta è colei ch’al tuo bel fonte ornavasi,
E preponea il tuo fondo a tutti i specoli;
Onde tua fama al ciel volando alzavasi.
Or vedrai ben passar stagioni e secoli,
E cangiar rastri stive aratri e capoli,
Pria che mai sì bel volto in te si specoli.