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il baretti 71

IL ROCCOLO


Nelle Reminescenze della propria vita di Lodovico Sauli d’Igliano, il piemontese e subalpinissimo diplomatico di Carlo Alberto, si può leggere a pag. 263 del 1° volume, edizione Albrighi, un gentile aneddoto, relativo al tempo in cui il Sauli era impiegato alla Prefettura, — Prefettura allora napoleonica, — di Torino.

Ecco l’aneddoto:

«In quei tempi capitò nella nostra camera il signor Grassi, il quale lavorava in un’altra divisione, e veniva chiedendo come il verbo filare si potesse tradurre in latino. Gli altri ammutolirono; ed io dissi: «neo, nes, nere». Questo lo so, disse il Grassi; ma la voce nere «non è di buona latinità. Pure è usata da Ovidio, ripigliai, là dove nei Fasti descrive Lucrezia che dispensa il lavoro alle ancelle. Ovidio, replicò il Grassi, Ovidio non fa autorità. Era peraltro, diss’io, scrittore del secol d’oro d’Augusto. Ma se l’autorità di Ovidio non vale valga quella di Tibullo: Di tibi talia nento Il Grassi finì col dire: «All’autorità di Tibullo piego le mio bandiere, e non ho cosa alcuna da opporre. Bravo, soggiunse; si vede che Ella non ha gettato il tempo durante la prima sua gioventù».

Perchè non ci siano dubbi, conviene ripetere che questo dialogo si svolgeva fra due impiegatucci di prefettura, a Torino, nell’anno 1807 e che Torino passava allora per la Beozia italiana, e che, effettivamente, nel 1807, essa era un po’ intontita del continuo rullo di tamburi delle caserme imperiali.

Per constatare il progresso delle umane lettere, desidererei sapere chi, oggi, potrebbe sostenere sulla classicità della voce nere, un dialogo simile, a botta e risposta, come quello tra il Sauli e il Grassi. Non dico nelle prefetture: dico nelle università.

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Riletto qualche pagina del purissimo, amenissimo e pio Giambattista Giuliani: Delizie del parlare toscano.

Che precisione, che informazione, che serietà, in questo tenue Lemonnier! E gli stenti di questo povero prete, andare qui o lì per lo campagne o per le officine, a raccattare termini propri e modi di dire efficaci! Tutta una vita. E la semplicità, la modestia con cui il risultato di tanto lavoro è presentato: «Spero di non ingannarmi nella fiducia d’aver fatto un lavoro utile o fors’anco durevole non per la parte mia dimenticabile facilmente, ma sì per la parte che vi occupa il potente linguaggio, signore delle gentilezze e naturale maestro del parlare italiano». Non pretendeva di essere un artista. Si contentava di essere un lessicografo, un gramatico, un chiosatore di qualche verso di Dante.

Oggi ci sono dei toscani che del loro parlare conoscono le delizie meno bene, assai meno bene di quanto non le conoscesse il Giuliani: e hanno uno stok di modi di dire o di riboboli fiorentini e pratesi infinitamente meno ricco e abbondante di quanto non lo avesse lui. Eppure, credono che questo basti per scrivere dei romanzi: che riescono, si capisce, freddini freddini, tutti pezzi di bravura, tirati e appuntati cogli spilli: noiosi. Si leggono, solo per seguire colla matita bleu i termini dialettali, messi lì in mostra, per far vedere come in Toscana si parla bene.

Vedi caso Cicognani.

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Tra gli scrittori italiani moderni, credo che ce ne sia uno solo che abbia le Delizie del parlare toscano sempre sul tavolo di lavoro, a portata di mano. È Ugo Ojetti.

In questo, Ugo Ojetti è una persona ammodo.

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E piace tanto poi, nel Giuliani, quel suo grande amore, quella sua venerazione, non solo per il parlare toscano, ma per la gente che ha un così bel parlare. La rivendugliola di Pisa, il villanello della montagna di Pistoia, il barrocciaio di Certaldo, il fornaciaio di Pescia, il legnaiolo del Casentino, tutta la gente che egli incontra su per valli e colline di Toscana, e ch’egli sta ad udire incantato, vorrebbe metterla sopra un altare. Non fa che lodarsene. Alla fine di ogni lettera, leva lo braccia al cielo. «Oh beatissimo il popolo che ha sortito di natura così ingegnosa e spedita favella!» (pag. 44) «Beato a mo, se mi si concedesse di scrivere come essi parlano!» (pag. 36). «Oh, se io avessi salute! Vorrei davvero studiare quest’attico linguaggio!» (pag. 33). «Nè mai potrà perdersi questa gentile progenie del popolo toscano, ma tengo anzi per corto, che sia destinata a rifiorire l’Italia, e con essa tutta l’umana civiltà», (pag. 95). «Oh, come, presso questo popolo si mantiene squisito il senso della bontà! V’appar ingenita la cortesia, sinceri gli affetti e prosperevoli le virtù della religione: talora vi ammirai l’aspetto di una santità contenta nelle tribolazioni» (pag. 190). E tutto il libro è pieno, di questi oh! e di questi ah!; oh, le gentilezze toscane, ah, l’animo squisito come la favella!

Oh, il buon padre Giuliani! Ah, il candidissimo maestro di tutte le delizie del parlare toscano!

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Upton Sinclair, in un articolo pubblicato nulla Frankfurther Zeitung, rivela il retroscena della vita famigliare di Mark Twain.

Per venti anni Mark Twain fu lo scrittore più pagato, più acclamato e più trionfante di America.

Pareva a noi uno spirito liberissimo, un canzonatore scorbellato dell’America e delle società americane: pareva che l’America pagasse con trecentomila dollari ciascuno dei suoi libri, precisamente per sentirsi canzonata da lui.

Ebbene, no. Mark Twain fu un martire della «rispettabilità». Ora sappiamo che i suoi sentimenti più vivaci, il disprezzo verso la plutocrazia, l’odio contro il settarismo puritano, egli dovette sempre tenerseli in corpo, accennando a pena, con qualche amico, al dolore della sua vita intellettuale ferreamente limitata e controllata, alla reticenza delle sue opero più celebrate. Non poteva combattere, come avrebbe voluto, le cose ch’egli più vivamente odiava. Non poteva perchè la famiglia, l’ambiente in cui viveva, la società della gente per bene e colta alla cui estimazione egli teneva, tutta l’America infine, esigevano da lui ch’egli fosse umorista sì, ma insieme, in alto grado «rispettabile». «Respectability». Chi deride e canzona la civilizzazione capitalista e il settarismo puritano può essere grande artista finchè vuole, ma non è più «rispettabile». L’America lo isola, lo bandisce. Mark Twain, il «coraggioso umorista» aveva paura del bando della gente per bene!

Tipico ciò che gli capitò con Gorki. Lo scrittore russo era andato in America per raccogliere fondi in favore dei rivoluzionari del suo paese. In un primo momento, fu progettato un grande banchetto in suo onoro che doveva essere presieduto da Mark Twain. Tutt’a un tratto, scoppia lo scandalo: Gorki viveva con una donna, che non era sua moglie! Orrore! Tutta la gente per bene di America pensa o dichiara che Gorki non è «rispettabile», e che tutti coloro che praticano con lui non sono «rispettabili» Mark Twain declina l’onore di presiedere il banchetto.

Qualche anno dopo, nel 1905, il colonnello americano Giorgio Harwey lo invitò a un ricevimento in onore dei delegati russi e giapponesi, dopo la pace di Porthsmouth. Mark Twain di primo impeto, vergò un telegramma di sdegnoso rifiuto, in cui diceva di essere, lui, un umorista ben più debole di «quei signori diplomatici, che dalle tragedie di una grande guerra erano riusciti a ricavare la commedia di un ricevimento in marsina». Ma il telegramma, non partì. Mark Twain ebbe paura di offendere la «rispettabilità» del pubblico americano, il quale era lusingato di vedere la pace tra russi e giapponesi conclusa sotto gli auspici di Roosevelt. Mark Twain, «lo spietato critico della società moderna» fece come fa Missiroli, in casi simili: lesse il telegramma agli amici intimi, e poi ne mandò un altro, elogiando lo spirito di pace dello Czar.

La moglie e le due figlie lo «correggevano» e sottoponevano a rigorosa censura preventiva tutti i suoi scritti. Un giorno la moglie tornò a casa indignata contro di lui: il predicatore della comunità aveva detto, che Mark Twain, in una novella, aveva usato delle parole scorrette. «Delle parole scorrette!» Mark Twain, nella seconda edizione, ripulì lo scritto, e lo rese presentabile al pubblico «come si deve». L’opera sua più sincera e più bella, «Huckleberry Finn», Mark Tvain la dovette scrivere nei ritagli di tempo, nelle ore bruciate: o tenerla a lungo nascosta. Oggi, appena in questo suo libro possiamo trovare qualche traccia, timida, del vero pensiero di Mark Twain, che spunta dietro il suo «io ufficiale», ortodosso, conformista, americano. Scorrete, nel Corriere dei Piccoli, le avventure del marito di Petronilla, continuamente «corretto» dalla consorte: è press’a poco la storia di Mark Twain, in più le busse. Le donne di casa dello scrittore esigevano da lui questo: ch’egli non le ledesse, coi suoi scritti, nelle loro relazioni sociali. Riducevano tutto il suo umorismo allo «Standard» della borghesia di Elmira, la città in cui avevano residenza. Ciò che poteva offendere la borghesia di Elmira, cancellato. Esse rappresentavano in questa loro severa funzione censoria, il gusto del gran pubblico americano, delle masse che compravano e pagavano le opere di Mark Twain: lo scrittore lo capiva, e si sottometteva. L’America: una cosa terribile! L’«inesorabile e spregiudicato scrittore» piegava.

Per comprendere tutta la superiorità intellettuale dell’antico regime sulla democrazia, o in genere, della vecchia cultura europea sulla nuova forma di civiltà che dall’America invade, a poco por volta, anche l’Europa, bisogna ricordare che, mentre Mark Twain scriveva di nascosto «Huckleberry Finn», Anatole France si recava, ogni giorno, a lavorare in una stanza, preparatagli nell’appartamentino della sua governante-amante: e che il marito legittimo di costei era precisamente l’incaricato di vegliare alla tranquillità del Maestro, e gli preparava il pennino nuovo infilato nell’asticciola, l’inchiostro nel calamaio, le cartelle di nitida carta disposte a quel tal modo sulla scrivania; e che tutta l’Europa elegante e colta conosceva perfettamente queste cose, e le trovava di molto buon gusto, una prova della vecchia sopravvivente gentilezza francese.

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Quando, qualche mese fa, fu conferito il premio Nobel per la letteratura a St. Reymont parecchi italiani si meravigliarono: e, naturalmente, cominciarono a dire che i membri della Commissione Nobel sono della povera gente, oppure dei sistematici dispregiatori della moderna letteratura italiana, o cose simili. Si aspettavano il premio per Pirandello: e chiesero: ma chi è, questo Stanislao Reymont!

Ora vedo da un catalogo tedesco che l’opera maggiore del Reymont «I contadini polacchi» fu tradotta, integralmente, in tedesco e pubblicata presso il Diederich di Jena, la bontà di quattordici anni fa. Nessuno di noi se n’era accorto: ma la Commissione Nobel, che è più diligente di noi, se ne accorse. Vedo anche che I contadini polacchi sono stati tradotti, sempre integralmente, in giapponese e in indiano: noi non ne abbiamo tradotta neppure una riga, e il Lo Gatto ha già osato molto, mettendo dinanzi al pubblico italiano, che non ne vuol sapere, un saggio del Reymont: «E’ giusto!» Vedo infine che ora esce, in Germania, una riduzione dell’opera del Reymont adattata in modo tale da poter essere compresa in solo 680 pagine: la Germania, dunque oltre al testo integrale, ha anche quello ridotto. Noi abbiamo quello ridotto e francese.

È veramente provvidenziale che il conferimento del premio Nobel sia fatto da una commissione di norvegesi, orientati tutti, per affinità di cultura e di lingua, sulla produzione artistica tedesca, e sulle pubblicazioni tedesche. I membri della commissione possono conoscere in una lingua per essi corrente, molti autori che non sono ancora arrivati alle vetrine delle librerie parigine: possono giudicare prima o all’infuori del crisma santissimo della traduzione francese. Ciò dà ad essi, per professori che siano, un campo di osservazione molto più vasto di quello della produzione parigina: e rimette la letteratura francese moderna al suo posto, in mezzo a quelle di tutti i paesi di Europa. Le loro scelte possono parere inspiegabili, bizzarre, matte, a noi, ai nostri critici, ai nostri giornalisti, che sono per lo più poveri parassiti del Vient-de-paraitre: ma in realtà, sono scelte che posseggono molto più senso delle proporzioni di quanto non paia.

Solo una commissione giudicatrice composta di svedesi poteva infliggere alla tirannia letteraria francese una «mise-au-point» così rude, come quella di aspettare a premiare Anatole France fino al 1921. I partigiani dell’imperialismo spirituale italiano, i quali, da veri italiani, ignorano completamente tutta la produzione europea che non sia francese, se avessero dovuto giudicare, avrebbero deposto il premio ai piedi del France fino dal 1890, o press’a poco...

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Uu segno commovente del nostro provincialismo letterario è dato dal conto assiduo e diligentissimo che le nostre riviste bibliografiche tengono, di ciò che si stampa all’estero su di noi. Di tutto ciò che si stampa: anche dei trafiletti, anche delle «poche righe». Anche dei per finire.

Così, noi siamo informati puntualmente che il Zofinger Tageblatt e la Neue Aargauer Zeitung hanno pubblicato, in data tale, un articolo su D’Annunzio; che l’Epoque Nouvelle di Bruxelles si è occupata dell’attività letteraria di Ardengo Soffici (come a dire, un articolo di memorie sismologiche su un vulcano ormai spento); che il signor Vandoyer ampiamente contò sull’Echo de Paris di alcune recenti opere critiche francesi (udite, udite!) sull’arte italiana; che il nominato Senor Don Gustavo Abril si è occupato di Pirandello sul notissimo e importantissimo periodico El Noticiero Sevillano; che il Windomosei Literakie di una città qualunque, lassù in Polonia, ha pubblicato un profilo di Marino Moretti; che l’Adeverul di Bucarest parla — finalmente! — del teatro di Carlo Goldoni; che un simpatico trafiletto è dedicato alla memoria di Giacomo Boni sulle Rheinisch-Westfalische Zeitung di Essen, in data (precisiamo ben tutto!) del 21 luglio u. s. E così via: basta prendere tra mani anche l’ultimo numero dell’Italia che scrive.

Ora, io non so se il veder lì, scritto, stampato, ancora una volta, il proprio nome, con l’aggiunta che di questo nome si è occupato il tal signore a Varsavia o a Siviglia, faccia piacere a Soffici, a Moretti: e forse farà piacere. Ma noi, poveri lettori, ma io, che ahimè! non sono nominato mai da nessun giornale straniero e perciò non vedo rimbalzato il mio nome nello apposite rubriche delle riviste italiane, provo un senso di malinconia. Prima di tutto, mi fa pena, ma sì: imperialisti spirituali lo siamo un pò tutti! mi fa pena constatare e contare quanta poca gente ci sia, fuori d’Italia, che ritiene la letteratura moderna italiana degna di lettura e di studio: perchè, se quella rubrica vuole essere un censimento, oh, che magro censimento che ne vien fuori! E poi, mi dà pena anche maggiore quel vedere della brava gente che raccoglie con tanto impegno tutte le voci, e fin tutti i fiati, che i critici stranieri degnano di emettere sulle cose nostre; o quel distendere per benino anche i nomi di giornali che non hanno importanza nessunissima, e quelle réclame fatte gratis a chissà quale trinciaparole di Siviglia o di Bucarest, solo perchè questi si è accorto che esiste Pirandello e che esistito Goldoni, e ne dà parte ai sivigliani e ai levantini di Bucarest...

Tutto ciò e molto goffo; ripeto, molto provinciale. Ho un bel cercare: ma non trovo una sola rassegna francese che curi, con altrettanta pedanteria, la raccolta di notizie su tutto ciò che si stampa pel mondo, a proposito della letteratura francese. Non ce n’è una, io credo. Ce l’avrebbero, il loro daffare! E poi, non vogliono neppur parere di occuparsene tanto. E hanno ragione.

A proposito della Rheinisch-Westfalische Zeitung, quella che a tutti noi italiani ci ha fatto il così grande onore di occuparsi, con un trafiletto, di Giacomo Boni, ricordo una visita che feci alla sua redazione, nella primavera del ’23, ai tempi della Ruhr.

La R. W. Zeitung è un grosso giornale di provincia, impiantato enormemente bene, come tutti i giornali di provincia tedeschi, in un edificio proprio; tipografia modernissima, non so quante linotypes, supplementi illustrati splendidi, inserzioni a non finire. In compenso — naturale e necessario compenso — povertà assoluta d’idee, notiziario ridicolo, articoli pedanteschi e solenni, tutta la desolazione spirituale della stampa provinciale di Germania. E ogni giorno, il Feuilleton, il celebro Feuilleton di tutti i giornali di Germania: quella parte inferiore della prima o seconda pagina, quel pian terreno, riservato alla bellettristica locale: Theater und Kunst, la novella domenicale, il resoconto del viaggio dell’ingegnoso andato in Turchia o del commesso viaggiatore al Brasile, tutta una rubrica stitica e cachettica, che costituisco il più grande disonore del giornalismo tedesco: una specie di rubrica «Giornali e riviste» nostrane, ma con molte più pretese, e molto più pesante.

Vado dunque alla R. W. Zeitung, per avere non so che informazione. Ero capitato fuori d’ora; del corpo di redazione — Redaktione stab! — non c’era ancora nessuno. Solo un signore mi fece entrare nel suo studio, messo come non c’è uguale credo, in nessuna redazione italiana: certi caloriferi, ancora nel mese di Marzo! Bitte Platz nehmen, si accomodi, si accomodi, inchini reciproci, Herr Kollege di qua, Herr Kollege di lì. Stette a sentire con grande attenzione la mia richiesta di informazioni. Ma poi dovette dirmi che lui non poteva servirmi in niente.

— Ma scusi, non fa lei parte della redazione?

— Sì, sì, signor collega: ma vede, io ho la responsabilità del solo Feuilleton. Io dirigo la parte letteraria della Rheinische und Vestfalische Zeitung: rispondo soltanto di quella: è la mia competenza. Io sono specializzato nel Feuilleton, e firmo soltanto per la gerenza del Feuilleton...

Si metteva la mano aperta sul petto, come per attestare la sua fedeltà nibelungica alla causa delle belle lettere renano-westfaliche. Io lo piantai. Per scegliere i pezzi che dovevano essere inseriti in quei quattro e quattro otto mezzanini del suo giornale, questa specie di tonno se ne andava in Redazione alle due, o ci stava tutto il pomeriggio, e aveva uno studio come quello!

Ora, egli continuerà a curare il suo Feuilleton, o ad essere responsabile della parte letteraria della R. W. Zeitung, l’altro giorno ha stillato quattro righe per Boni, con le solite quattro frasi; e por questa sua azione memoranda, una rivista bibliografica italiana ha subito citato il suo nome, il nome del suo giornale, le dato esatte della sua bravura giornalistica...

No: tutto ciò è scemo. E’ più scemo ancora del Feuilleton delle Rhenische-Westfalische Zeitung.

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Sento parlare del «problema dello stile».

Io credo che chi concepisce lo stile come problema sia perduto.

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L’amico Zanotti-Bianco sta curando — mi dicono — una nuova edizione dei discorsi politici del senatore Giustino Fortunato sul «Mezzogiorno e lo Stato Italiano» I due volumi, dati fuori nel 1911, sono ormai rari: e Zanotti ha un grande merito: quello di aver indotto il nostro carissimo Don Giustino alla ristampa, e di aver superate tutte lo difficoltà, tutte le obiezioni, tutti i veti improvvisi, che lo stesso don Giustino volle avanzare per le qualità delle carte, per il tipo dei caratteri, per tutte le particolarità tecniche circa le quali egli è particolarmente viziato.

Ma se la ristampa dei due volumi di discorsi politici sarà cosa buona, io vagheggerei, per fare avvicinare il pensiero e gli scritti del senatore Fortunato ad un pubblico più vasto, una cosa che non esito a chiamare eccellente.

Bisogna mettere insieme una antologia delle cose scritte del Fortunato. Bisogna lasciar cadere dei discorsi, le porti che riguardano tecnicamente questioni di bilanci o di ferrovie; dagli scritti storici, la parte più strettamente documentaria, le discussioni esegetiche. Bisogna scegliere: e portare, in un paio di volumi, dinanzi alla giovane generazione — anche a quei giovani che si occupano del «problema dello stile» — le grandi pagine del Fortunato, le pagine che hanno tutte le qualità per vivere a lungo nel cuore degli uomini e per durare perchè in esse la grande passione e il grande amore per le