Affronti e Confronti/VII

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Come previsto, in undici minuti raggiungemmo lo studio televisivo. Erano le venti e ventotto. Il dottor Biagi, prima che iniziasse la trasmissione, ebbe il tempo di scambiare con me qualche parola, e mi raccontò che, non solo la stampa italiana, ma anche quella estera si era occupata di quell’intervista, nel bene e nel male. Mi disse anche che qualche piccolo frammento era stato trasmesso in alcuni notiziari italiani e stranieri. Notiziari che io non ebbi il tempo di ascoltare. Venne poi il momento della sigla d’apertura.

«Buonasera a tutti voi, signore e signori. Eccoci qui, nuovamente insieme a voi, per questa seconda puntata di Affronti e confronti, una puntata speciale come quella di ieri sera che spero non vi siate persi. Andremo avanti fino a martedì prossimo. Durante tutte queste puntate non vi saranno interruzioni pubblicitarie, tanto che l’orario di inizio è stato anticipato. Non sto a riassumervi la puntata di ieri sera, ma per chi l’avesse persa, abbiamo pensato di inserirla – come pure sarà per quella di stasera e per le prossime – nel nostro archivio informatico che potrete consultare e soprattutto ascoltare collegandovi al sito internet che vedete in sovraimpressione.

Ora proseguiamo con la nostra intervista a Enea Galetti, un non vedente di quarant’anni. Abbiamo ricevuto molte telefonate in redazione e messaggi di posta elettronica, da parte di persone che si sono recate in una qualsiasi libreria per acquistare un libro in Braille da regalare a qualche non vedente, ma sono rimaste disattese. Altre persone vedenti vorrebbero imparare a scrivere e leggere con il vostro sistema. Altre ancora vorrebbero sapere in che modo un non vedente possa utilizzare un computer, soprattutto per leggere ciò che appare sullo schermo. Sono tutte domande a cui io non saprei rispondere, cosa che invece lei può fare benissimo».

«Intanto, buonasera, dottor Biagi e buonasera a tutti gli ascoltatori. Sono molto lusingato per il fatto che siano pervenute in redazione richieste così numerose da parte del pubblico, perché in questo modo si è creato un filo diretto attraverso cui è possibile dialogare. Vi risponderò in modo esauriente, compatibilmente al tempo che potrò utilizzare in questa trasmissione.

Innanzitutto, i libri in Braille non si trovano nelle comuni librerie, i cui commessi non sanno nemmeno dove possano essere reperiti, visto che noi abbiamo delle strutture speciali di cui nessuno (tranne noi, naturalmente) è informato.

Tali libri, infatti, si possono trovare presso enti specializzati, il più importante dei quali, sia in Italia sia all’estero, è la Biblioteca Italiana per Ciechi di Monza, dove i libri, oltre che essere dati in prestito, possono anche essere venduti. Quest’ultima modalità spesso risulta poco conveniente, sia per lo spazio che i libri occuperebbero in casa sia per il prezzo che, nel nostro caso, risulta di gran lunga elevato rispetto alle normali edizioni.

In ogni caso, la lettura è un piacere irrinunciabile.

Per quanto riguarda l’apprendimento, il sistema Braille non è particolarmente difficile. Per poterlo scrivere si usa una tavoletta, su cui è posizionata una cornice apribile, in modo da inserirvi il foglio. Poi vi sono due chiodini che, alla chiusura della cornice, fissano la carta. Lungo la cornice vi sono due file di buchi (ovvero una per parte) perché vi si possa inserire uno speciale regolo, costituito da due file di caselle, dentro le quali viene utilizzato il punteruolo, che servirà mediante la semplice pressione a formare dei puntini sulla carta.

In ogni casellina è possibile formare tre punti nella parte di destra e tre in quella di sinistra.

Facciamo l’esempio delle prime dieci lettere dell’alfabeto: la A è un puntino in alto a destra, la B uno in alto e l’altro a metà sempre a destra, la C ha i due puntini in alto, la D due in alto e uno a metà a sinistra, la E uno in alto a destra e l’altro a metà a sinistra, la F due in alto ed uno a metà a destra, la G due in alto e due a metà, la H uno in alto a destra e altri due a metà, la I uno in alto a sinistra, l’altro a metà a destra, infine la J ne ha uno in altro a sinistra e altri due a metà. Abbiamo dunque preso in considerazione le prime dieci lettere dell’alfabeto che ho descritto brevemente. Potreste anche avere dimenticato le mie spiegazioni su come si scrivono, ma non importa. Vi basti sapere che le successive dieci lettere (dalla K alla T) aggiungono un puntino in basso a destra, mentre quelle della terza serie (U, V, X, Y, Z, & o C con cediglia, É che in Braille si scrive con tutti e sei i puntini, À, È, e Ù) aggiungono tutte un puntino in basso a sinistra alle precedenti, e così via, fino ad arrivare ad esaurimento dei segni (qui non sto a spiegarvi come). Per i numeri vengono usate le prime dieci lettere, dalla A alla J (in questo caso da 1 a 0, la prima delle quali viene sempre fatta precedere da un segno chiamato “segnanumero”, la seconda cifra e le successive, invece, no.

Altra particolarità è che con la tavoletta si scrive da destra a sinistra, ma girando il foglio leggeremo da sinistra a destra, per cui la posizione dei puntini risulta capovolta. Così, in modalità di lettura, la A risulta con il puntino in alto a sinistra anziché a destra, il puntino della lettera D che abbiamo scritto a metà a sinistra, risulterà a metà a destra, e così via.

Va anche detto che esistono speciali macchine per scrivere, chiamate “macchine dattilobraille”, che sfruttano la scrittura con movimento del supporto meccanico da sinistra a destra, proprio come nel senso della lettura. Il risultato è immediato, visto che mentre scriviamo abbiamo la possibilità all’istante di leggere, senza girare il foglio e doverlo estrarre dall’apposito supporto.

Il Braille viene usato nelle più diverse applicazioni, grazie, soprattutto, ad una serie di prefissi e suffissi. Naturalmente, a seconda che si tratti di musica, algebra, matematica o formule chimiche e scientifiche, sappiamo come quel segno vada interpretato. Imparare il Braille, dunque, non è poi così difficile; basta seguire le regole appena enunciate.

Ed ora parliamo di computer. Va detto, innanzitutto, che non esistono computer per non vedenti. In pratica, ciò che noi compriamo è un normalissimo computer, il quale è adattato per l’utilizzo da parte nostra, a patto che venga installato il software appositamente realizzato. Ve ne sono diversi. Il più usato si chiama Jaws. Tale software funziona secondo due modalità diverse: la prima prevede il collegamento al computer di un display, denominato “barra Braille”, con il quale la riga in Braille viene spostata ogni 40 o 80 caratteri, mediante appositi tasti e a seconda del tipo di display installato; la seconda prevede l’uso di un sintetizzatore vocale, dove, a leggere ciò che scriviamo o ciò che appare sullo schermo, non siamo più noi, ma una voce metallica che possiamo ascoltare mediante le casse o le cuffie del nostro pc, munito ovviamente di una scheda audio. A questo punto una curiosità: il monitor che solitamente viene usato dai nostri amici vedenti possiamo tenerlo anche spento. Noi, infatti non lo useremo, come pure non useremo il mouse, ma è necessario possederli entrambi, perché in caso di difficoltà, un vedente può sempre darci una mano. Ancora una curiosità a proposito del sintetizzatore. Esso funziona solo in fase di scrittura e di lettura, mentre i programmi di dettatura in formato vocale sono tutt’altra cosa. A differenza dei vedenti, noi abbiamo bisogno di un corso base per imparare i comandi più importanti, poiché oltre ai comandi delle varie applicazioni più diffuse, esistono anche comandi specifici per il nostro software. Inoltre, noi utilizzeremo solo ed esclusivamente la tastiera o, comunque, comandi che attraverso la tastiera fanno spostare il mouse».

«Signor Galetti, ho sentito parlare di musica e so che molti di voi hanno appreso con particolare passione questa materia; conosco persone come voi che se la cavano molto bene con il pianoforte, con l’organo ed altri strumenti. Ma come fate?».

«Prima di entrare nel dettaglio, occorre dire che una persona vedente ha sempre la possibilità di suonare uno strumento con lo spartito davanti agli occhi, in modo da poter controllare costantemente ciò che sta suonando; nel nostro caso, le cose si svolgono diversamente.

Il brano musicale è diviso in tanti righi, in genere le prime tre o quattro battute della mano destra, poi quelle corrispondenti alla sinistra, e così via. Inoltre, a differenza di chi vede, noi non abbiamo il pentagramma ed il setticlavio, ma leggiamo le note in orizzontale, a seconda di come sono scritte. Il pezzo musicale viene suonato ed imparato a memoria battuta per battuta, una volta imparata la seconda battuta, viene ripetuta anche la prima, e così via, e questo vale sia per la mano destra sia per la sinistra.

In questo modo si procede fino al termine del pezzo, quindi, una volta memorizzato l’intero brano, lo si ripete più volte a mani separate e solo quando si è davvero sicuri, lo si suona a mani unite. Una volta conseguito questo risultato, occorre studiarlo in base ai cosiddetti colori del suono e all’espressività. Insomma, un lavoro da certosino che alla fine ci dà soddisfazione. Spesso può anche accadere che l’insegnante abbia uno spartito diverso rispetto a quello dell’allievo, e quindi le sfumature ed i colori cambiano. Infine, occorre far notare che un’insegnante vedente non è obbligata ad imparare il Braille e, se ci sa fare, può benissimo seguire un non vedente.

Per la musica, in breve, non è possibile per noi leggere mentre si suona e quindi dobbiamo imparare tutto a memoria.

Io stesso ho studiato musica per molti anni, anche se da qualche tempo l’ho lasciata per dedicarmi al computer».

«Dimenticavo di chiederle, a proposito di libri, se esiste in Braille Il codice da Vinci?».

«Al momento no. Ne ho sentito parlare, soprattutto perché la posizione della Chiesa è molto chiara al proposito. Può darsi che la nostra biblioteca, in base al successo che il libro ha avuto sul mercato, decida di trascriverlo. Tuttavia, penso che il libro sia disponibile in qualche nostro sito internet. Se così fosse, lo scaricherò al più presto perché ho proprio voglia di leggerlo».

«Quindi, lei legge, ha studiato musica e si dedica al computer. Quali altri interessi ha?».

«Oltre agli hobby già citati mi piace molto frequentare riunioni di qualsiasi genere – purché conformi al buon costume – e fare lunghe passeggiate, allo scopo di incontrare persone con le quali parlare. Sono ancor più soddisfatto quando il dialogo diventa costruttivo. Poi mi dedico, come già detto, al computer e alla lettura».

«Ieri, lei ha nominato la Fallaci. Ora vorrei chiederle se ritiene giusto ciò che afferma a proposito dei musulmani e, più in generale, ciò che esprime con le proprie idee politiche».

«Questa sua domanda, dottor Biagi, è molto delicata e meriterebbe una complessa analisi. Ora io, al posto della nota scrittrice e giornalista, non mi sarei spinto troppo in là, soprattutto per tutto ciò che riguarda la sua persona.

Esprimere le idee fino a quel punto, infatti, potrebbe diventare troppo pericoloso; ma questo, la Fallaci lo sa. In fondo, qualcuno deve pur dire la verità su come stanno effettivamente le cose. Le mezze verità non esistono. O si dice il vero e si è onesti fino in fondo, o si dice il falso.

L’atteggiamento della Fallaci, per la verità (e questo riguarda anche le sue idee in politica) è scaturito da quando l’11 settembre del 2001 ci fu quel tremendo attentato negli Stati Uniti. Saranno stati i fondamentalisti islamici che considerano noi occidentali come infedeli, forse – e ciò è molto probabile – c’è stata la mano di Osama Bin Laden. In ogni caso, chi è coinvolto a qualsiasi livello in quell’attentato ha voluto colpire con aerei di linea la popolazione americana, ma, soprattutto, ha voluto colpire il cuore del potere e continua a colpire con qualunque mezzo chi, a suo giudizio, è infedele per la sola ragione di appoggiare la politica americana.

Personalmente mi considero filoamericano. Gli americani ne avranno combinate di tutti i colori e non sono dei santi, ma, chi veramente ci ha salvati dal fascismo e dal nazismo dopo lunghe sofferenze è stata l’America. Ritengo inoltre che gran parte della tecnologia che utilizziamo – pensiamo ad esempio ai sistemi operativi prodotti dalla Microsoft di Bill Gates – sia arrivata proprio dagli Stati Uniti. Lo stesso software a noi dedicato che ci consente di usare il computer è distribuito in Italia, ma è di produzione americana».

«So che lei, signor Galetti, è stato due volte in America. È andato a visitare le torri gemelle? Ha avuto occasione di tornarci dopo quell’attentato?».

«Sì. La prima volta fu nel 1996. Io e mia madre ci recammo a trovare mio zio, di origine abruzzese, emigrato in America molti anni prima. Fu per noi una grande soddisfazione, perché mio zio con la sua pazienza e la sua dedizione ci portò dappertutto.

Ora, lo Stato del New Jersey, dove vive mio zio, dista da New York circa una quarantina di minuti. Così, dopo esserci recati in visita alla Statua della Libertà, abbiamo avuto modo di visitare le torri gemelle. Ed ora, dottor Biagi, osservi questo portachiavi. Ora lo giro in modo che venga inquadrato così che anche i telespettatori da casa possano vederlo. Su questo lato qualcuno ha scolpito in rilievo le torri gemelle. Io molto spesso prendo in mano questo portachiavi per aprire alcuni armadietti. Fu mia cugina a regalarmelo.

Io andai su quelle torri, raggiungendo l’ultimo piano (i piani erano 110, e quindi presi l’ascensore). Ora le due torri non ci sono più. Capirà il mio stato d’animo; ho provato un senso di rabbia e, nello stesso tempo, di stupore. Stupore, in quanto non avrei mai pensato al crollo delle tween towers; con le due torri (e non solo) sono stati bruciati anche anni e anni di storia, è stato colpito il potere americano, fino a quel momento inattaccabile. Rabbia, perché per quanto sia mostruosa la delinquenza non riesco neppure a concepire che una o più persone abbiano pensato di colpire gli americani con aerei di linea, con una violenza inaudita e con un piano così crudele, micidiale e così ben preparato fin nei minimi particolari.

Ascolti ora come venni a sapere ciò che accadde.

L’11 settembre 2001 era un martedì. Quello fu un giorno normalissimo per me, come tanti; mi alzai alle sei e venti e, dopo essermi fatto la barba con la lametta, feci colazione, quindi mia madre mi accompagnò alla fermata del pullman, una volta sceso dal quale trovai un obiettore che mi accompagnò sul posto di lavoro.

Alle dieci feci la mia pausa caffè, quindi a mezzogiorno precise mi recai in mensa dove ad attendermi, come al solito, trovai un anziano collega di fronte a cui si trovava una collega più giovane; queste due persone mi hanno sempre fatto sedere al loro tavolo intrattenendomi con la loro compagnia e aiutandomi quando ne avevo bisogno.

Alle quindici feci un’altra pausa, quindi, alle sedici e venti venne a prendermi un altro obiettore che mi accompagnò a prendere il pullman per il rientro dove, una volta sceso, mi raggiunse mia madre.

L’obiettore mi chiese se in ufficio avevamo la radio e quando gli risposi di sì mi domandò se l’avessi accesa. Gli dissi di no. Poi mi domandò se in ufficio avevamo internet, ma la risposta fu negativa. Per farla breve, mi disse che collegandosi ad internet e successivamente tramite sms sul cellulare venne a conoscenza di quell’orribile notizia. Le torri erano crollate e tutto si era sciolto come burro. Come se ciò non bastasse un altro aereo si era schiantato in un bosco della Florida e infine qualcuno aveva attentato addirittura alla Casa Bianca.

Mi sedetti sul pullman, estrassi il mio walkman munito di radio e, sintonizzandomi su Radio 24, ascoltai ciò che era accaduto. Ironia della sorte, qualche giorno prima mi ero messo a leggere Missione Goldfinger di Ian Fleming, che raccontava proprio di New York e di presunti aerei da dirottare. Quando rientrai a casa, scoprii che mia madre non sapeva ancora nulla. Tentai di chiamare mio zio negli Stati Uniti, ma le linee erano intasate. Naturalmente, per alcuni giorni radio e tv trasmettevano ininterrottamente la notizia, con continui aggiornamenti. Ma alle otto e mezza di quella sera, stanco di rimanere in casa, andai a bere un bicchiere di acqua fresca con la menta, in un bar vicino a casa.

Rientrato, riuscii finalmente a telefonare a mio zio. Per fortuna suo figlio, quel giorno, si trovava per lavoro a Washington, anziché a New York. Poi mi raccontò che quella stessa mattina mia cugina, insegnante presso una scuola materna, vide un padre accompagnare il proprio figlio. Lei gli chiese come mai fosse proprio lui ad accompagnarlo; avrebbe dovuto andare a lavorare in un ufficio situato all’interno delle torri, ma – disse – quel giorno non si sentiva bene e così vi aveva rinunciato, e fu per lui la salvezza.

Parlammo per circa un quarto d’ora, poi riagganciai e ripresi ad ascoltare la televisione.

All’improvviso fu pronunciato un nome, un nome che non avevo mai sentito prima d’allora. Un nome che da quel giorno dovetti sentire moltissime volte, il nome di colui che aveva concepito e organizzato l’attentato, Osama Bin Laden. Dopo tre o quattro giorni ripresero i programmi normali, senza però trascurare di trasmettere servizi e speciali sul terribile attentato. Fu così che diciotto giorni dopo apparve sul Corriere della Sera il famoso articolo di Oriana Fallaci, dal quale poi venne pubblicato La rabbia e l’orgoglio, che uscì di lì a pochi mesi.

Il libro inizia con una lunghissima introduzione, poi il capitolo primo si apre con le parole “tu mi chiedi di parlare...”. Quando lessi il libro capii che quel “tu” non era impersonale, ma che si riferiva a chi in quel momento stava leggendo il libro, in questo caso a me».

«Signor Galetti, ha mai pensato di scrivere un libro?».

«Mai».

«Non ci credo».

«Sì, forse qualche volta».

«Lei ha buona memoria. Ho sempre sentito dire che voi non vedenti avete una gran memoria e lei ha dimostrato di saperla usare al meglio. Dunque, che cosa le impedisce di scriverne uno?».

«Ci vuole tempo e poi bisogna saper ordinare le proprie idee».

«In questo caso le pongo la domanda in modo diverso. Se lei dovesse scrivere un libro, cosa le piacerebbe raccontare? Io, ad esempio, lo farei scrivendo sugli anni da me vissuti, mettendoli in relazione con alcuni avvenimenti».

«Non sarebbe male, ma sono troppo giovane. Per la verità, un anno fa decisi di scrivere al computer il tema di maturità, un tema che riguardava il concetto di immagine. Poi, in un altro tema, immaginai un’intervista fatta da lei. Ora, però, l’intervista è reale e io sono qui, tranquillo, a parlare in televisione davanti a milioni di spettatori».

«Ritorniamo ora a quell’idea che mi è venuta. Come giornalista, mi rendo conto che la sua risposta si esaurirebbe, non stasera, ma tra qualche puntata. Anch’io amo il rischio. Perché non prova a porre in relazione i suoi anni di vita con gli avvenimenti più significativi che li hanno caratterizzati? La consideri come una risposta a microfono aperto. Può dire tutto ciò che vuole, parlare di musica, di politica, di sport e...».

Così, interrompendolo, feci un gran sorriso e gli dissi:

«Insomma, dottor Biagi, lei vuole proprio che io scriva il libro. Bene. Ma prima di incominciare, vorrei fare qualche considerazione. Innanzitutto, non è detto che io sia in grado di fare la cronaca anno per anno. Potrebbe capitare che alcuni anni vengano saltati e, quindi, si sorvoli su molte cose. Inoltre, devo cercare di parlare senza rischiare di disperdermi in particolari che annoierebbero gli ascoltatori. Infine, è vero che ho buona memoria, ma anche la mia memoria ha dei limiti e a volte potrei anche sbagliare qualche data riferita al giorno, al mese o all’anno. Io mi sento forte nelle classifiche dei dischi, anche se non parlerò solo di questo. A proposito di dischi, vorrei fare una precisazione sulle varie edizioni del Festival di Sanremo. Io ricordo tutte le canzoni vincitrici a partire dal 1968, anche se la nostra analisi comincerà dal 1970, perché, come vedremo, la mia memoria inizia a ricordare solo da allora. Per parlare di Sanremo, farò anche una specie di classifica delle canzoni più importanti. A tal proposito, però, occorre precisare che ho dovuto consultare diversi siti internet che non sempre danno l’esatta posizione del brano, per cui alcuni dati potrebbero non essere esatti. Pazienza!

Detto ciò, possiamo cominciare. Sono anzi contento che lei mi abbia dato questa occasione».

«Prego».

«Io sono nato nel giugno del 1964, ma la mia memoria inizia ad avere i primi ricordi – salvo eccezioni – a partire dal 1970, quando avevo cinque anni e mezzo. Canzonissima si era appena conclusa, l’edizione fu vinta da Gianni Morandi con Ma chi se ne importa. Guai a dire Ma chi se ne frega. La Rai vigilava con una censura rigorosa. Sanremo stava per iniziare. A dire la verità, cominciai ad ascoltare il festival – inizialmente solo la serata finale – a partire dal 1974.

Nel 1970, dunque, a Sanremo venivano presentati i brani in doppia versione, un sistema adottato sin dalla fine degli anni Cinquanta. Nella maggior parte dei casi, di versioni ve ne erano una maschile e una femminile, ma, naturalmente, vi furono molte eccezioni. Nel 1970 Adriano Celentano si classificò al primo posto con la celebre Chi non lavora non fa l’amore, la cui versione femminile fu cantata da Claudia Mori. Una canzone in cui lo sciopero viene accettato come diritto democratico, allo scopo di ottenere migliori trattamenti e aumenti di stipendio. Nei versi finali si dice “chi non lavora, non fa l’amore. Dammi l’aumento, signor padrone. Così vedrai che in casa tua e in ogni casa regna l’amore...”. Sembra però, più che una richiesta democratica, la supplica di un condannato. Lui vorrebbe scioperare, e la moglie che fa? Fa lo sciopero contro di lui. Così, a lui non resta che andare a lavorare, ma le cose non vanno affatto bene. Lui riceve un pugno e deve andare alla guardia medica, a piedi, perché sempre a causa dello sciopero i mezzi di trasporto non funzionano. E lì anche il dottore sciopera. Ai giorni nostri lo sciopero è più democratico, perché chi vuole può anche non farlo e andare a lavorare, mentre una volta, se non scioperavi, venivi spacciato per “krumiro” e facevi quasi la fine di quella specialità dolciaria di Casale Monferrato a cui – chissà perché – è stato dato il nome di Krumiri. Ovvero di quei biscotti che si inzuppano nel caffelatte e che se si inzuppano troppo si spappolano, solo che in questo caso a spappolarsi era la propria faccia riempita di pugni e botte.

Parentesi chiusa. Ritorniamo ora al nostro caro Sanremo. Nelle prime note, la versione di Celentano ricorda vagamente Give peace a chance di John Lennon. Al secondo posto si classifica Nicola di Bari con La prima cosa bella, canzone che venne cantata anche dai Ricchi e Poveri. La versione del noto cantante pugliese inizia con alcuni accordi di chitarra, quella dei Ricchi e Poveri viene cantata a tre voci, con cori di accompagnamento e con brio. Terzo classificato, Sergio Endrigo con l’Arca di Noè, che venne cantata anche dalla Zanicchi. Sembra quasi una filastrocca per bambini, mi riferisco in modo particolare al ritornello. Endrigo aveva già inciso altre canzoni per bambini e ne inciderà ancora.

I Camaleonti si piazzano al quarto posto assieme alla Vanoni con Eternità; Little Tony, con Patty Pravo, ottiene il quinto posto con La spada nel cuore, mentre al decimo troviamo la simpaticissima Tipitipitì di Orietta Berti. La seconda versione in gara è stata cantata da Mario Tessuto, ma è meno conosciuta.

A proposito di Chi non lavora non fa l’amore, la televisione di stato trasmette una rubrica intitolata Turno C, una trasmissione che affronta argomenti sindacali. Ricordo che andava in onda verso le cinque e mezza, ogni giovedì sera, e la sigla iniziale e finale cantata da Bruno Lauzi diceva press’a poco così: “Vedrai com’è bello lavorare con piacere...”, insomma veniva decantata la libertà di lavorare. Per bambini e ragazzi – proprio dopo Turno C – venivano trasmessi alcuni fumetti nella trasmissione Gli eroi di cartoni, la cui sigla cantata da Lucio Dalla era appunto intitolata Fumetto. Altre volte andava in onda una trasmissione di cartoni animati dal titolo Il sapone, la pistola, la chitarra ed altre meraviglie, la cui sigla era cantata dall’Equipe 84, ma soprattutto, al termine di questi programmi (sempre il giovedì) andava in onda Ciuffettino, dal nome del protagonista di due romanzi per ragazzi scritti da Yambo (pseudonimo di Enrico Novelli).

Fabrizio De Andrè incide il primo dei tre album “cult”, a carattere tematico. L’album in questione si intitola La buona novella, liberamente ispirata ai vangeli apocrifi, la cui canzone più famosa è Il testamento di Tito, dove Tito, il presunto nome di uno dei due ladroni – probabilmente quello buono – fa un’accurata riflessione sui dieci comandamenti.

Intanto, alcune canzoni sanremesi approdano in classifica, come La spada nel cuore di Little Tony, o Tipitipitì di Orietta Berti.

Quest’ultima ha anche inciso una filastrocca per bambini, Fin che la barca va, il cui significato morale può essere che chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia, ma non sa quello che trova.

Ma torniamo agli avvenimenti musicali di quell’anno. Nel 1970 l’edizione di Un disco per l’estate fu vinta da Renato dei Profeti con la celebre Lady Barbara. Altre canzoni che io definirei piene di allegria – quasi fossero una fresca bevanda estiva dissetante e ricca di schiuma e bollicine – sono state Color cioccolata dei Nuovi Angeli, L’isola di Wight (non so se alla nota manifestazione canora partecipasse quella cantata dai Dik Dik, o quella di Michel Delpech), Ho camminato, cantata da Michele, Il momento dell’addio di Junior Magli, L’uomo alla donna non può dire no, cantata da una quasi sconosciuta Gloria Guida, e così via. Due canzoni non meno importanti furono Permette signora di Piero Focaccia e Una favola blu di un allora emergente e sconosciuto Claudio Baglioni. Nella prima, che rievoca atmosfere da balera, il protagonista cerca di “cuccare”, invitando e cercando di persuadere una gentile signora a lasciare il marito o il fidanzato per fuggire con lui (il famoso “fuggisca con me”, grammaticalmente scorretto in italiano, sembra però ben intonare con i ritmi melodici della canzone). La seconda invece è molto più romantica.

Alcuni mesi dopo, Baglioni la inserirà nel suo primo album, Claudio Baglioni. Bisognerà però aspettare il 1972 per il vero successo, quando spopolerà nelle classifiche con il suo terzo album intitolato proprio come la sua canzone più famosa, Questo piccolo grande amore. A proposito di Baglioni, vorrei aprire una piccolissima parentesi. Nel 1971 affidò a Rita Pavone una sua canzone scritta assieme all’altrettanto noto Coggio, La suggestione. Alcuni anni fa sono venuto a sapere, attraverso una trasmissione televisiva, che di quella canzone esiste anche una versione inedita interpretata dallo stesso Baglioni, di cui ne hanno fatto ascoltare un brano. Come ripeto, dottor Biagi, quella versione non è mai stata pubblicata, ma mi auguro che qualcuno lo faccia, magari tra qualche anno, visto che, ora come ora, vanno tanto di moda le cosiddette platinum collection di complessi e cantanti comprendenti oltre ai grandi successi anche uno o due inediti.

Sempre nella stessa edizione di Un disco per l’estate vi furono poi due canzoni mai inserite in alcuna raccolta dai rispettivi artisti o da artisti vari. Erano due canzoni melodiche, ma non hanno avuto successo. Si tratta di Chiedi di più, il 45 giri inciso dall’ormai celebre Johnny Dorelli, e Dimmi cosa aspetti ancora, cantata da un’emergente Dominga che, pur incidendo altri 45 giri, non fu poi così conosciuta dal grande pubblico.

Eppure dobbiamo aprire ugualmente una piccola parentesi solo per dire che la canzone di Dominga appartiene al genere folk melodico. Accanto a quel suo brano, infatti, ve ne sono almeno cinque appartenenti allo stesso genere e partecipanti alla nota edizione canora di Saint-Vincent: Una rosa una candela di Rosanna Fratello, le già citate Fin che la barca va di Orietta Berti e Permette signora di Piero Focaccia, Il mare in cartolina di Isabella Iannetti (cantante pugliese già nota al grande pubblico con brani altrettanto di successo) e Settembre di Peppino Gagliardi. Per il noto cantante napoletano le “tante primavere” sanremesi di Come le viole, sono ancora piuttosto lontane, ma di altrettanto successo, almeno quanto la canzone appena citata.

Enzo Jannacci canta Mexico e nuvole, mentre il leggendario Jim Morrison dei Doors – già all’attivo con canzoni incise nel 1967, quali The end e Light my fire –, ci propone la rockeggiante Roadhouse blues.

Lucio Battisti è in classifica con la melodica Emozioni e la frizzantissima Fiori rosa, fiori di pesco, i cui glissati di arpa – chissà perché – mi fan sempre venir voglia, magari seduto al chiosco vicino ad una spiaggia assolata, di ascoltare il motivo e, nello stesso tempo, di sorseggiare un fresco bicchiere di spumantino dolce, o di fragolino (in altri tempi, da bambino, avrei bevuto solo Coca-Cola). Dunque, proseguiamo. Anche Mina si difende bene con Io e te da soli e Insieme, mentre Modugno canta La lontananza; Morandi propone Capriccio, Occhi di ragazza e Al bar si muore. Già, dimenticavo la romantica Viola di Adriano Celentano e l’indimenticabile stornello romano di Nino Manfredi, scritto e musicato da Ettore Petrolini, Tanto pe’ canta’. I New Trolls entrano in classifica con tre canzoni Annalisa, Una miniera e Una nuvola bianca.

Tra le straniere possiamo ricordare The Neanderthal man degli Hot Legs, Yellow river di Christie, e Spring, summer, winter and fall degli Aphrodite’s Child, già in classifica con It’s five o’clock, con l’incredibile voce rauca e romantica di Demis Roussos. Quest’ultimo sarà in classifica da solo con We shall dance nel 1971, Forever and ever nel 1973 e Goodbye my love, goodbye nel 1974.

Infine i Beatles ci propongono The long and winding road e Let it be, entrambe presenti in classifica per molte settimane. I componenti del celebre gruppo di Liverpool si separeranno nell’aprile di quello stesso anno. Alcuni mesi dopo (siamo ormai nel 1971), George Harrison è in testa alle classifiche con My sweet lord, mentre il leggendario John Lennon lo è con Jealous guy, e lo sarà l’anno successivo con la celebre Imagine.

Trascorso qualche mese dallo scioglimento dei Beatles ci saranno i Mondiali con la storica partita Italia-Germania. La nostra squadra, capitanata da Ferruccio Valcareggi, grazie a Gianni Rivera segnerà il goal decisivo che decreterà la nostra vittoria con il risultato di 4 a 3 nelle semifinali. Peccato che nella serata finale perderemo contro il Brasile.

Raffaella Carrà, assieme a Corrado, presenta l’edizione di Canzonissima abbinata alla lotteria Italia, che viene vinta il 6 gennaio del 1971 da Massimo Ranieri con Vent’anni. La sigla da lei cantata, Ma che musica maestro!, sarà un vero successo.

Infine, un fatto di cronaca. Il 15 ottobre del 1970, nella sezione femminile del manicomio giudiziario di Pozzuoli, a causa di un’apoplessia cerebrale, muore Leonarda Cianciulli, passata tristemente alla cronaca come la “saponificatrice di Correggio”. Con molta abilità sceglieva le proprie vittime, le uccideva, sezionandone i corpi, e le faceva sparire saponificandole. Ma i fatti di cronaca – cito solo i più importanti – non finiscono qui. Il 18 settembre muore Jimi Hendrix a causa di un’overdose all’età di 27 anni, una morte che, per la stessa causa, precede solo di qualche settimana quella di Janis Joplin (delle donne non diciamo l’età). Diciamo solo che era il mese di ottobre. Alcuni giorni dopo, anche la Francia è in lutto. All’età di 80 anni muore il valoroso Charles de Gaulle, ex generale e presidente della Repubblica francese. Altro lutto da segnalare, nel mondo della poesia: muore Giuseppe Ungaretti, cui Iva Zanicchi dedicò Un uomo senza tempo, dalla musica struggente e dal testo significativo. Anche questa canzone, come tutte quelle cantate dall’“Aquila di Ligonchio”, ebbe un meritato successo. Passiamo ora al 1971.

Per Nicola di Bari, il 1971 e il 1972 sono anni di successi e di vittorie. Nel 1971 a Sanremo si classifica primo con Il cuore è uno zingaro, insieme a Nada (quest’ultima, nel 1970, aveva cantato Pa’, diglielo a ma’ insieme ad uno sconosciuto Rosalino Cellamare, che per brevità si farà chiamare semplicemente Rosalino). Al secondo posto troviamo Che sarà di José Feliciano, le cui note ricordano melodie mediterranee; la stessa canzone viene brillantemente cantata dai Ricchi e Poveri, anche se l’approccio alla melodia sarà diverso. C’è però un problema, sul quale, specialmente in Italia, le polemiche non mancarono. Feliciano è non vedente, ma fortunatamente, dopo le prime difficoltà, la sua versione avrà successo. Gli americani ci avevano abituato già da qualche tempo a farci ascoltare fin da quell’epoca due pilastri del mondo della musica, Stevie Wonder e Ray Charles, mentre uno sconosciuto Gilbert Montagné, anch’egli non vedente, incise nel 1971 il 45 giri The fool. Al terzo posto della manifestazione sanremese troviamo 4 marzo 1943 di Lucio Dalla (la sua data di nascita), un testo quasi blasfemo, dove una madre di 16 anni – ovvero la Madonna – dava alla luce il suo Gesù, impersonato da Lucio Dalla, e “giocava a far la donna con il bimbo da fasciare. E forse fu per gioco o forse per amore – continua la canzone – che mi volle chiamare come Nostro Signore...”. Il noto ritornello “e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino, per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino”, ripetuto per tre volte, perché – si sa – il tre è un numero perfetto, consentì alla canzone di partecipare a Sanremo, perché in realtà la versione originale fu censurata e verrà incisa in un album live e fatta ascoltare in concerto solo molti anni più tardi. Nel testo censurato, quella madre “giocava alla Madonna con il bimbo da fasciare”, e il ritornello che verrà ripetuto solo due volte, diceva “e ancora adesso mentre bestemmio e bevo vino, per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino”. Sono termini pesanti, cui oggi, però, non si attribuisce più importanza. Comunque sappiamo che Gesù ha perdonato – noi useremo termini più leggeri – i malfattori e le meretrici.

Com’è dolce la sera di Donatello, in coppia con Marisa Sannia, occupa il quarto posto. Una canzone famosa che si classificherà al quinto posto è Sotto le lenzuola di Celentano. È la storia di un confessato tradimento, di cui però la moglie sa già tutto; il marito, accanito giocatore di poker (e non solo), decide di provarci con l’amica di sua moglie, ma quando le confessa il tradimento, nel tentativo di farsi perdonare, lei, già al corrente di tutto, mettendosi a piangere, gli dirà: “al poker sai, non si gioca in tre e non giocare più con la mia amica”, alludendo ovviamente ai sentimenti. Un’altra versione della canzone fu interpretata da un non meglio identificato coro alpino milanese.

A proposito, dottor Biagi, sa giocare a poker? Se così non fosse, allora siamo in due e non in tre.

Ed ora, battute a parte, proseguiamo. Domenico Modugno, con Carmen Villani, occupa il sesto posto con Come stai, al settimo ci sono Gianni Nazzaro e Don Backy con Bianchi cristalli sereni, in ottava posizione troviamo 13, storia d’oggi, cantata da Al Bano e, nella seconda versione, dagli Aguaviva, che contiene la strofa: “il 13 dicembre, santa Lucia, è il giorno più importante che ci sia”.

Per la prima volta a Sanremo partecipa la Formula Tre assieme al leggendario Little Tony con La folle corsa, piazzandosi entrambi al dodicesimo posto, come pure per la prima volta appaiono i Nomadi, in coppia con Mal, con Non dimenticarti di me, di cui, però, non ricordo a che posto si siano classificati.

Anche lo Zecchino d’Oro ci propone importanti e divertenti canzoni come La corriera del far west e Baby Cowboy, ma quella che piace di più e che vince è intitolata Il caffè della Peppina, uno schifosissimo intruglio di ingredienti (non sto neppure a nominarli, perché non si sa mai) che alla fine diventa addirittura esplosivo. Ma la melodia piace, con vaghi accenni ritmici tipici del tango e – succede per la prima volta – alcune note di fisarmonica. Fabrizio De Andrè incide il secondo dei tre album tematici, Non al denaro, non all’amore né al cielo, il cui tema è tratto dalla famosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Nelle classifiche italiane troviamo due canzoni di Orietta Berti, Ah, l’amore che cos’è e Via dei ciclamini, canzone quest’ultima che partecipò a Un disco per l’estate.

Sempre tra le italiane, vi fu un’altra canzone dal testo malinconico, che ebbe un grandissimo successo: Un fiume amaro di Iva Zanicchi, che per i cori di sottofondo, il ritmo e la musica mediterranea ci fa ricordare la nota cantante greca Nana Mouskouri, in voga qualche anno prima. In effetti, la canzone della Zanicchi è tratta dall’album Caro Theodorakis…Iva. L’album nasce come ringraziamento al musicista greco Mikis Theodorakis, che definì la voce della Zanicchi “pleine de lumière, pleine de passion” (piena di luce, piena di passione). Non ho ancora avuto modo di verificare se Theodorakis abbia musicato anche qualche canzone della Mouskouri. A me piace pensare che lo abbia fatto, perché vi è un’incredibile somiglianza di stile e di melodia.

Intanto Lucio Battisti colpisce ancora. Si piazza ai primi posti nella Hit Parade di Lelio Luttazzi (la nota trasmissione che dal 6 gennaio del 1967 va in onda ogni venerdì alle tredici e trenta sul secondo programma della radio e in replica ogni lunedì alle tredici sul Nazionale, ovvero il primo canale), dove vi rimarrà per quattordici settimane di seguito con la famosissima Pensieri e parole.

Il “Disco per l’estate” viene vinto da Era il tempo delle more di Mino Reitano; i Nuovi Angeli ci propongono Donna felicità, Michele Susan dei marinai, la Zanicchi una triste canzone, La riva bianca, la riva nera, mentre Dominga ci farà ascoltare Olì Olè, Olì Olà, con ritmi che ricordano gli stili messicani, spagnoli e cubani. Vi fu anche una canzone alla quale sono molto legato e che, per trovarla, ci ho messo un bel po’, si tratta di Vola cuore mio di Tony Cucchiara, una triste canzone scritta in ricordo di Nelly Fioramonti, la moglie morta a causa del parto. Gianni Morandi incide un interessante 45 giri, di cui il lato A riporta una canzone che avrà successo, ma che poi verrà dimenticata per molto tempo. Solo dopo molti anni ci si ricorderà di quella canzone, che finalmente potrà far parte delle raccolte ufficiali del cantante. S’intitola Com’è grande l’universo. Sul lato B vi si può ascoltare Ho visto un film. Di solito il lato B dei 45 giri – salvo diverse eccezioni – contiene quasi sempre la canzone meno bella, ma non nel caso di Morandi, che qui interpreta una cover della celebre canzone The ballad of Sacco & Vanzetti (ricordate le parole “Here’s to you, Nicola and Bart”?) della celebre Joan Baez. Anche questa canzone, che nella versione italiana non ha avuto successo, verrà, dopo molti anni, inclusa nelle raccolte ufficiali del grande Gianni. Ma, soprattutto, non dimentichiamoci della colonna sonora del film Love story, con l’omonimo brano strumentale del quale non ricordo chi fosse l’interprete della versione originale, perché di versioni strumentali ve ne sono almeno quattro o cinque, oltre ad una versione cantata da Johnny Dorelli».

«Bene, signor Galetti, con Love story direi che la puntata può concludersi. Finora lei ha fatto un’analisi davvero approfondita soprattutto in ambito musicale di cui non la credevo capace. Continueremo questo discorso domani sera alla stessa ora, come pure nelle prossime puntate. Buonanotte».

«Buonanotte a lei, dottor Biagi, e a tutti i telespettatori».