Alle porte d'Italia/La scuola di cavalleria

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La scuola di cavalleria

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I difensori delle Alpi Dal bastione Malicy


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LA SCUOLA DI CAVALLERIA





Bella signorina che, a quanto pare, finirà con legarsi per la vita e per il vitino a un ufficiale di cavalleria, e sarà punta a suo tempo, come molt’altre, dal sottilissimo acúleo della gelosia retrospettiva, non si dimentichi, quando vorrà strappar le confessioni a suo marito, di domandargli conto dei suoi amori o del suo amore di Pinerolo, perchè uno almeno ci dev’essere stato, come è certo che splende il sole. E s’egli negherà, ed ella insista, assalendolo risoluta, come se fosse sicura del fatto suo. Ma non avrà bisogno di ricordarsi dei miei consigli maligni, poichè sarà condotta al sospetto da altre voci e per altre vie. E già mi par di vederla e d’udirla, accesa nel viso, sfoderar la sua requisitoria coniugale con quella esagerazione amenissima, che rende così cara, anche a chi ne è vittima, l’eloquenza d’una donnina sdegnata. — Se si può negare! Ma se siete stati innamorati tutti, in quell’anno, che è una regola, un articolo sottinteso del regolamento. No? Non [p. 371 modifica]sarà stato a Pinerolo, sarà stato a Torino; ma Pinerolo era la base d’operazione, in ogni modo. Dunque.... È vero. Un amor doppio, forse.... o senza forse. Uno che mosse il màntaco ai sospiri, ed uno.... od altri.... d’altra natura. Bisogna che per quelle quindici miglia di strada ferrata si vedano passar cappelli e penne di tutti i colori: una vera esposizione ornitologica ambulante ha da essere, con biglietto d’andata e ritorno. E la chiamano “scuola di perfezionamento.„ Oh! il passato della cavalleria. E dire quante ragazze del mezzogiorno d’Italia penseranno all’amico o al cugino lontano con questo conforto, che è lontano, sì, ma fuor d’ogni tentazione e d’ogni pericolo, in quella piccola città severa, quasi perduta fra le montagne, con le nevi eterne a due passi, e sei mesi d’inverno polare. Povere grulle! Eh! taci. È inutile. T’odio.

Chi sa quante belle bocche avranno detto qualche cosa di simile, dal quarantanove in qua! Poichè fin dal quarantanove v’è la Scuola di cavalleria a Pinerolo, fin dall’anno in cui fu sciolta la Scuola d’equitazione della Venaria reale, di già antica memoria. Questa era stata aperta nel 1823, era vissuta sempre sotto le cure dirette dei Sovrani, e non si può dire che facesse mala prova, grazie, in parte, al famoso Vagner, che vi fu capo cavallerizzo molti anni, e vi fondò un metodo eccellente d’insegnamento, non sapendo d’italiano che due parole: no e bestia, che gli bastavano; a quel Vagner che, partito di qua capitano, andò poi a offrire il suo frustino a Pio IX, il quale gli diè il comando d’un reggimento di dragoni, da cui uscì [p. 372 modifica]generale. Lo scopo di quella Scuola era il medesimo di quella d’ora; ma gli usi conformi ai tempi, che è quanto dire molto diversi. Gli ufficiali andavano a Corte al baciamano in calzoni bianchi, il professore di lingua francese e italiana aveva trenta lire di gratificazione ogni due mesi, e i cavalli invalidi erano dati ai frati, che ne facevano regolare richiesta a Sua Maestà. Ma non tutti gli usi eran diversi, poichè fin d’allora Sua Maestà voleva impedire le troppo frequenti corse degli ufficiali a Torino, dove par che smontassero in piazza Emanuele Filiberto, all’albergo della Rosa bianca, che fu celebre; e le brillanti scapestrerie non eran rare, benchè fossero scarsi gli allievi. Da questa piccola Scuola piemontese, durata un quarto di secolo, nacque più grande, arricchita di altri studi, e italiana, la Scuola di Pinerolo, a traverso alla quale, più volte ampliata, trasformata e ricorretta, passarono tutti gli ufficiali di cavalleria del nuovo esercito, dal più vecchio generale al più giovane sottotenente, tutti quelli venuti dall’esercito meridionale, o dall’austriaco, o da quello dell’Emilia. Nove comandanti, dei quali son raccolti i ritratti, come quei dei dogi di Venezia, in una sala del club, ancora minaccianti arresti e fortezze, si succedettero finora nella direzione di questa grande fabbrica d’ufficiali, che da trentasette anni lavora senza riposo. Ed ebbe anni di produzione copiosa e affannosa, nei quali i cavalleggeri, i lanceri, le guide, gli usseri uscivano rapidamente di sotto alle sue ruote, abbozzati appena, ma scintillanti d’entusiasmo, gettando il loro grido di guerra [p. 373 modifica]in tutti i dialetti d’Italia; ed ebbe i suoi anni pacati, come questi, in cui lavora lenta e in silenzio, fortificando e ripulendo con cura l’opera sua, per dare all’esercito cavalieri perfetti “elegantemente saldi e spensieratamente arditi.„

Trentasette anni sono trascorsi, un esercito d’uffiziali è passato; di mille vite avventurose e strane, splendide e tristi, qui balenarono i presagi e tempestarono le prime passioni. Quando di sul colle di San Maurizio si fissa lo sguardo giù sopra i tetti di quel vasto edifizio, risuonante di nitriti e di squilli di tromba, la fantasia vede confusamente ufficiali di cavalleria lanciati alla carriera per vaste pianure verdi, rigate di bianco dalle divise tedesche; e sale da ballo dorate, dove altri ufficiali trionfano, in mezzo a una flora volante di donne belle; e boscaglie illuminate dalla luna, fumanti ancora di una mischia solitaria d’esploratori dove dei cavalli mutilati si dibattono nell’agonia; e poi sciabole incrociate e visi accesi di duellanti, in giardini su cui spunta l’aurora; ed altri visi immoti e pallidi, intorno a tavolini da gioco; e dietro tutti questi, più lontani e più confusi, altri cavalieri, altri balli, altri duelli, altre sale da gioco, altri cavalli che agonizzano in mezzo a boscaglie solitarie, su cui la luna risplende. Ma pure la luna di Pinerolo ha da averne visto la parte sua, di scene tragiche no, ma di lepide e ardite follie, al tempo in cui la gioventù militare era più scapigliata e più allegra. E sarebbe ameno d’andare a chiedere a un vecchio generale severo: Si ricorda ancora di quando [p. 374 modifica]scendeva a cavallo da Santa Brigida, di notte, vestito all’Ernani, rischiando la vita in una corsa disperata, e svegliando la città a colpi di pistola? O a un altro generale canuto e venerabile: Se la sentirebbe ancora, generale, d’arrampicarsi in cima a un albero d’una piazza, una notte di pioggia, per vedere a traverso ai vetri d’una finestra su che fianco s’addormenta una signorina? O a un vecchio colonnello, pien di gravità e di dolori: — Non le pare che le farebbe bene, colonnello, di rituffarsi nudo nel Chisone in una bella notte di gennaio, com’ella faceva nel buon tempo antico? Molti di quegli ufficiali giovanissimi, che Pinerolo vide brillare per le sue vie, accumularono gli anni e i galloni; altri, ancor nel fiore dell’età, li tolse all’esercito una ferita gloriosa; parecchi morirono eroicamente sotto le sciabole della cavalleria austriaca, a Montebello, a San Martino, a Custoza, usciti appena dalla Scuola. Gittar l’anima di là dall’ostacolo, prescrive il cavallerizzo tedesco, e slanciarsi subito ad afferrarla: essi la gittarono fra i nemici, e non la riafferrarono più. E ci sentiamo battere il cuore ritrovando nei registri della Scuola i loro nomi, con l’elenco delle punizioni subite per le loro scappate giovanili, nate da un bisogno imperioso di divorar la vita, come se la presentissero breve. E ritroviamo con quelli i nomi di tutto il patriziato d’Italia, i quali ci risveglian nell’anima un’eco di quella divina musica del cinquantanove, al cui suono correvano ad arrolarsi i duchi, i conti e i marchesi, e strigliavano allegramente i cavalli, impazienti d’imperlare i loro stemmi di sangue. [p. 375 modifica]La Scuola d’allora formava l’ufficiale; quella d’oggi non fa che compirlo; ma è più faticosa e più austera dell’antica. Licurgo troverebbe poco a ridire sopra l’orario. Gli ufficiali inforcan gli arcioni appena arrivati, e si può dire che restano in sella per nove mesi: non scendon da cavallo che per andare agli attrezzi di ginnastica, passano dalla ginnastica alla sala di scherma, scappano dalla scherma alla scuola d’armi da tiro e d’ippologia, corrono dal maneggio al campo degli ostacoli, dal campo degli ostacoli alla scuola di campagna, dalla scuola di campagna al quartiere, continuamente incalzati, sobbalzati, scrollati, svegliati prima dell’alba, spossati prima di sera, tenuti a mensa tutti insieme, vigilati da vicino e da lontano dall’occhio paternamente terribile d’un colonnello che li conosce un per uno come figliuoli, e li governa col regolamento da una mano e l’orologio dall’altra. Venuti dalla Scuola di Modena, dove prevale la penna al fucile e il tavolino al cavallo, ricevono qui una scossa violenta, quasi brutale, che li sopraffà a tutta prima; ma che riconoscon ben presto necessaria e benefica nella forza duplicata dei muscoli e in un nuovo e come impetuoso sentimento della salute. In quei pochi mesi segue in quasi tutti una trasformazione fisica, come per effetto d’una seconda e rapida adolescenza. Vengono giovanotti, ripartono uomini; entrano studenti, escon soldati. E questo si propone la Scuola, e per questo da rude educatrice li affatica e li sferza, quasi mirando a domar la carne e a castigar le passioni.... Ma non doma e non [p. 376 modifica]castiga nulla. Tutta quella gioventù smaniosa di vita non bastano a contenerla nè i lacci serrati della disciplina, nè la mano ferrea del colonnello, nè la cerchia angusta di Pinerolo: essa ribolle e zampilla fuori come vino spumante da una botte forata. Torino l’accende, come un grande specchio ustorio, e l’attira, come una gigantesca tromba aspirante. E le gite lecite e le corse clandestine s’avvicendano, come s’alternano tra i fidanzati, sotto gli occhi dei parenti, le carezze permesse e palesi e gli ardenti baci furtivi. Ah le belle scappate! O beato ultimo treno del sabato! O deliziosi tuffi a capofitto nel veglione vietato, dati con la voluttà del nuotatore fanciullo che si slancia nudo nel fiume, in barba alla guardia municipale! E saran terribili i ritorni, nell’ore più fredde della notte, in calesse, col vento e la neve in faccia, con l’ansia di non arrivare in tempo pel primo esercizio della mattina; nè riuscirà difficile al colonnello, che avrà udito da letto lo scalpitio accusatore dei cavalli, riconoscere sull’alba i profughi, o ai morsi dei cavalli capovolti, o ai colbac messi al rovescio nel dormiveglia, o agli occhi pesti e ai capelli arruffati dalla mano febbrile del carnevale. E ci sarà pure il rischio, sonnecchiando in sella, di perder l’equilibrio al primo salto di montone del maremmano ombroso, e di risvegliarsi in grembo alla madre terra, fra quel maledetto urlio dei compagni: — Paga! Paga! Paga! — Ma che monta! Si faranno le frizioni di spirito canforato e si pagherà il fio e lo Champagne.... ma si sarà slanciata l’anima a volo come un cavallo alato a [p. 377 modifica]traverso a una notte ardente di Torino, si saranno tracannate d’un fiato otto ore di libertà e di pazzia, con la gioia frenetica della ribellione e del trionfo.

E quell’anno di Pinerolo rimane nella memoria di tutti gli ufficiali di cavalleria come uno degli anni più saporiti della giovinezza, forse appunto per ciò, che il più caro dei piaceri, quello della libertà, non vi si beveva che a stille, a traverso ai buchi del regolamento, ed ogni stilla riusciva come un’essenza potente che dava il profumo e l’ebbrezza di dieci calici. Molte volte, fra le cure e le amarezze che crescon via via, col crescere dei fili d’argento sopra il berretto e di sotto, essi lo ricordano con desiderio quell’anno fresco e vivace, che spicca come un fiore vermiglio nella filza in gran parte scolorita di tutti gli altri. E ritrovandosi dopo lungo tempo nei campi e nei presidi, subito, e sempre, si rammentano l’uno all’altro con loquace allegrezza le sciabolate date insieme alle teste di cuoio nel campo degli ostacoli, e le cavalcate su per la collina di santa Brigida e per i sentieri da capre del monte dei Muretti, e i capitomboli fatti e scansati, e quella sala da pranzo chiara e sonora, che intese tante proteste gastronomiche, smentite dal lavorio precipitoso degli “avorii„ giovanili, e quelle eterne clamorose discussioni tecniche sul cavallo ungherese e sull’italiano, e sulla sella antica e la nova, e sull’incrociamento orientale od inglese, e sulla cadenza delle andature e sull’equitazione di campagna e di maneggio, e tutti quei bei sogni ad occhi aperti, tutte quelle [p. 378 modifica]dorate immaginazioni di guerra e d’amori, di cariche vittoriose e di ritorni trionfali, che si spensero poi ad una ad una sull’orizzonte decrescente della vita, come le fiammelle d’una luminaria lontana. Ah sì, e quel fabbricone della Scuola era uggioso e quell’orario spietato; ma un verso festoso risonava in ogni parte e rallegrava ogni cosa, ed era quello che il cuore canta una volta sola in settant’anni. Ed ella pure, signorina, ha da aver per la Scuola un po’ di gratitudine, perchè qui imparò il suo tenente, e non sotto alle sue finestre, a stare a cavallo come ci sta, senza rompere la comandata perpendicolare che scendendo dalla punta della spalla e rasentando a mezza via quello che è prescritto passa a quattro dita dal tallone; e se vuol dire la verità, ella s’è prima innamorata della perpendicolare che dell’anima. E deve qualche cosa alla Scuola anche lei, signora contessa; le deve la soddisfazione che provò all’ultimo paper-hunt, di vedere il suo capitano far così maravigliosamente la volpe a traverso a fossi, e a tronchi d’alberi e a siepi, e metter tanto spazio in pochi istanti fra sè e i cacciatori, ch’ella sola, spronando a furia la morella, riescì a scoprirlo e a raggiungerlo in una solitudine verde; la quale risonò d’una nota armoniosa, che non era la nota d’un usignuolo.

Ed anche Pinerolo ama la sua Scuola, che mantien vive le sue tradizioni di città militare, e ch’è oramai così intimamente legata con essa, che al suono di quel nome — Pinerolo — passa per la fantasia d’ogni italiano una cavalcata sfolgorante di ufficiali ventenni. Ed essa li accoglie [p. 379 modifica]assai più che come ospiti, come figli, da vecchia gentildonna piemontese, nata di valorosi e cresciuta fra l’armi; e volta il capo in là con un sorriso, a suo tempo, da madre ragionevole e indulgente, che intende la giovinezza. E la Scuola le aggiunge vita e leggiadria. Il movimento degli elmi argentini e dei colbac neri, e delle divise strisciate di bianco, di rosso, di ranciato, di giallo, e il via vai rumoroso dei cavalli e dei soldati dello squadrone d’istruzione, le dà l’aspetto d’una città di frontiera quando è imminente la guerra. Oltre che quell’accolta di giovani è come un focolare continuamente riatizzato, che tien l’aria accesa di faville amorose, a cui volgon gli occhi ed aprono il cuore le figliuole gentili della fortissima hosti. Perchè grande è ancora la virtù seduttrice di quell’Arma, la quale unica forse, negli eserciti moderni, serbò un riflesso dell’antica poesia guerriera, e un certo nome di romanzesca spensieratezza, sdegnosa delle gretterie della vita. Quel pensiero della tomba aperta desta nei cuori femminili un vago senso di trepidazione, che è un principio d’amore. Lo scalpitare del cavallo adombrato chiama alla finestra un visino inquieto. Gli sguardi s’annodano. Qualche testa bruna di cavaliere, già accaldata dai colbac, s’accende; e più d’una testina dalle trecce bionde sogna un titolo patrizio e il golfo di Napoli o la Conca d’oro; e molte speranze paterne germogliano e fioriscono come pianticelle coltivate in segreto. Ma sopraggiungon gli esami, lo scoppio del primo temporal d’estate rompe i sogni, il primo vento d’autunno porta via i [p. 380 modifica]fiori, e qualche lagrima verginale cade a terra, e qualche sospiro paterno s’alza al cielo. Ma ecco, al cader delle foglie, altri elmi, altri colbac, altri blasoni, e nuovi baietti e morelli e saurini, e allora i sogni ricominciano, e i fiori rispuntano. Ma il raggio degli occhi azzurri penetra qualche volta così addentro sotto alla divisa del cavaliere, che il no dei parenti lontani non gli fa che inasprir la ferita, e terminato a un tempo il celibato e la scuola, egli porta via in groppa la sua subalpina; e allora la città, che commentò per un anno tutte le vicende del romanzo cavalleresco, applaude alla chiusa felice come alla carriera finale d’un torneo, mentre la Maldicenza cancella due nomi dal registro giallo, scrivendoci sopra — Saldato.

E si va aggiungendo in tal modo qualche filo di seta ai vecchi e forti legami che stringono la Scuola a Pinerolo; la quale dimostrò nobilmente l’animo suo, tre anni sono, piangendo come una sventura cittadina la morte del bravo ufficiale, che era ai suoi occhi quasi l’immagine vivente di quell’istituto. Egli era stato un mirabile esempio del come la rettitudine dell’animo e l’adempimento amoroso e costante dei propri doveri possano accumulare per sè soli sopra un uomo modesto ed oscuro tanta simpatia, tanta onorabilità, da confondersi quasi con la gloria. Nato di famiglia povera, aveva cominciato la sua vita militare a sedici anni, trombettiere nei Cavalleggeri di Saluzzo; ed era entrato sergente istruttore d’equitazione, poco più che ventenne, alla Scuola; nella quale, esercitando sempre lo stesso ufficio, aveva [p. 381 modifica]raggiunto il grado di maggiore, e finito la carriera e la vita. Egli aveva insegnato l’equitazione a tutti gli ufficiali di cavalleria dell’esercito italiano, che tutti, anche lontani e dopo molti anni, lo ricordavano sempre con affetto e con gratitudine. Maestro impareggiabile a cavallo, appassionato dell’arte sua in fondo all’anima, aveva un aspetto soldatesco, un gesto imperioso, un comando fulmineo, che parevan l’espressione d’un anima di ferro; ed era buono e ingenuo come un ragazzo. Fuori di servizio, gli ufficiali gli andavano attorno, celiando, come a un babbo buon diavolo, di cui si faccia quel che si vuole. In fatto di coltura, era rimasto poco più che soldato; maggiore, parlava ancora piemontese ai napoletani e ai toscani che s’ingegnavan di capirlo dai gesti. Ma così fatta era la stima che ispirava l’uomo e il maestro, che sarebbe parso ignobile il sorridere di quello che mancava all’ufficiale. Tutta Pinerolo lo conosceva, ed egli conosceva tutti, e passava in mezzo ai saluti e ai sorrisi della città amica, che lo vedeva tutti i giorni, da quasi trent’anni, semplice e affabile nella sua dignità matura d’ufficiale superiore, come era stato nella sua alterezza giovanile di sergente. Un giorno che egli tornava da una passeggiata, il cavallo gli s’inalberò all’improvviso, e gli cadde addosso riverso, dandogli col capo nel ventre una percossa mortale. Portato a casa insanguinato e fuor dei sensi, fu assistito dì e notte dai suoi ufficiali, che si diedero il cambio al capezzale, finchè visse. E i suoi ultimi pensieri, le sue ultime parole furon per loro. Delirando, [p. 382 modifica]s’affannava per un allievo che gli pareva pericolante all’esame, e lo difendeva con la Commissione, gridando che lo dovevan provare con un cavallo anziano, non con un cavallo giovane; o ne vedeva un altro cader di sella nel campo degli ostacoli, coi piedi impigliati nelle staffe, e gridava: — Fermate! fermate! — cacciandosi le mani nei capelli, povero Baralis. E così, tutto al suo dovere anche nell’agonia, spirò. E l’antico trombettiere ebbe le onoranze d’un principe. La città intera si affollò dietro al suo feretro, e la cavalleria italiana gli pose sulla fossa un busto di marmo, che il suo valoroso e gentile colonnello, Eugenio Pautassi, scoprì, salutandolo con le più nobili parole che possano uscir dal cuore d’un soldato.

E così i comandanti e i maestri invecchiano e muoiono, e la Scuola è sempre giovane: essa riceve ogni anno un’onda di sangue vivo e ardente, che gorgoglia alcuni mesi fra le sue mura, e si rispande poi per tutta Italia a inturgidire e a rinfiammar le vene dei venti reggimenti di cavalleria, un po’ svigoriti e tediati dalla lunga aspettazione della prova. Poichè lo stato d’animo d’un esercito che dura nella pace da molti anni, è molto simile a quello d’una ragazza, a cui il tempo fugge e l’amor non arriva. E la stessa dubbiezza stanca e impaziente ad un tempo è nell’animo di chi ne parla o ne scrive, perchè se è inumano da un lato il desiderar la guerra per la guerra, non ci è possibile dall’altro il salutare e ammirare questo tesoro sacro di giovinezza, di forza e di ferro, senza che ci trascini l’affetto, ogni momento, [p. 383 modifica]al desiderio di vederlo operante e glorioso. O terribile domani, pieno di oscurità e di silenzio, che cosa nascondi? Quale sarebbe il grido che ci fuggirebbe dall’anima se ti rischiarasse un lampo, un lampo solo, ai nostri occhi? E forse ci vedresti già segnata la tua sentenza, o bell’ufficiale dei lancieri, che spingi il tuo grande baio oscuro sulla via di San Secondo: invano tu spererai sul tuo letto d’ambulanza di portar saldata ai baci dell’amante l’orrenda ferita che t’aprirà la fronte. E tu ti sentirai piegar sotto, fulminato in mezzo al petto, quello stesso saurino che ora accarezzi, o futuro dragone di Piemonte, e saranno gli stessi cavalli del tuo squadrone, sventurato, che a pochi passi dal quadrato nemico frangeranno il tuo bel corpo giacente. E a te, o bel cavaliere dalle mostre gialle, sarà un colpo di lancia vibrato nelle tenebre quello che ti segnerà sul petto il posto della medaglia dal nastro azzurro, la quale non giungerà in tempo a sentire il palpito del tuo cuore. Ma questa previsione non vi turba, bravi giovani; voi rispondete con un sorriso: — Che importa! — e, spronato il cavallo, vi slanciate a briglia sciolta nell’avvenire, offrendo gioiosamente la fronte al bacio della Patria e della Morte.