Anime allo specchio/È partita

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È partita

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La matrigna Il cuore malato

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È PARTITA.


— Eccolo, eccolo, zio! — gridò Oretta dall’ampia terrazza, fra le cadenti ghirlande della vite vergine rossa e gialla.

Suo zio, il pittore Fabio Lucani, alto, magrissimo, con una corta barba nera e i capelli ruvidi già tutti brizzolati, s’affacciò alla vetrata dello studio con la tavolozza sull’avambraccio e le sorrise a fior di labbro.

— Ma vieni a vedere. Guarda la sua automobile; ti piace quel colore verde-cupo? — insisteva la voce argentina di Oretta, mentre egli appoggiato alla ringhiera nell’arco vermiglio della vite vergine gettava in basso uno sguardo fra distratto e tediato.

— Sì, molto elegante, — disse finalmente con un’aria di compiacente rassegnazione, e rientrò nello studio, si rimise al lavoro. Ma Oretta lo raggiunse subito con un sorriso d’ansia e di felicità sul fresco viso ventiquattrenne. [p. 90 modifica]

— Ecco, ora sale le scale. Quattro piani, cinque minuti almeno. Mi dirai se ti piace, me lo dirai francamente, non è vero? Non lo tratterrò in salotto, lo condurrò subito qui. Ecco: è lui.

Un trillo lungo e acuto di campanello attraversò l’atrio come una freccia. Oretta con la mano sul cuore, attese; dopo un momento la cameriera apparve dietro un paravento giapponese e chiamò la signorina. Ella gettò allo zio un sorriso e corse via leggera.

— Il conte Bonventuri, mio zio Fabio Lucani.

Oretta presentò l’uno all’altro i due uomini i quali esitarono un attimo prima di stringersi la mano e in quell’attimo i loro sguardi incontrandosi si sentirono oscuramente ostili.

— Costui è l’uomo che mia nipote ama, — pensava Fabio Lucani mentre rispondeva gentilmente alle domande vaghe e convenzionali che il giovine gli rivolgeva sulla sua arte e sulle sue opere. — Costui è venuto qui oggi o verrà qui domani per chiederla in moglie ed io non potrò rifiutargliela. E fra due o tre mesi quest’uomo che io non conosco, che poco tempo fa Oretta non conosceva, se la porterà via ed io resterò solo. Io che da vent’anni me la vedo accanto, che vivo della sua giovinezza, che gioisco della sua bellezza, che so amarla col cuore e con gli occhi, che godo la sua presenza e la sua vicinanza come il [p. 91 modifica]maggior bene della mia vita, dovrò sorridendo cederla a questo giovine bellimbusto, per l’unica ragione che è un ottimo partito e che a ventiquattr’anni una ragazza deve prender marito. Io che non posso vendere i miei quadri migliori, perchè li amo troppo per separarmene, dovrò donare a costui questo mio dolce tesoro, questa fanciulla che ho allevato ed educato io stesso come una cosa sacra e dimostrargli inoltre la mia gratitudine per aver accettato il dono.

— Il suo studio, maestro, è veramente delizioso, — diceva mellifluo Guglielmo Bonventuri, aggirandosi per la vastissima stanza che il primo crepuscolo scendendo dall’alto lucernario riempiva di una tenue luce violacea.

— Questo ritratto di Laura fu esposto l’anno scorso a Venezia, lo ricordo bene, — soggiunse dopo un momento fermandosi ad esaminarlo.

— Laura; chi è Laura? — mormorò fra i denti il pittore volgendosi, ma subito si ricordò che quello era il vero nome di sua nipote, alla quale per tenero vezzo egli aveva imposto fin da bambina il bizzarro diminutivo trecentesco di Oretta.

— Ah, già, — rispose senza avvicinarsi, e gli venne un gran desiderio di voltare il quadro incontro alla parete per toglierlo alla vista di quell’uomo.

— Zio, come sei stato freddo con Guglielmo, [p. 92 modifica]— lo rimproverò dolcemente Oretta appena rimasero soli.

— Bambina, lo vedo per la prima volta, — rispose egli accarezzandole i capelli d’un biondo acceso, scendenti lungo le guancie tutte rosee d’emozione. — Lo sai che mi è difficile mostrarmi espansivo con gli estranei.

— Dunque, che impressione ti ha fatto? — ella domandò trepida, sollevando il volto per guardarlo negli occhi.

Ma Fabio Lucani distolse lo sguardo fingendo di contemplare il soffitto e rispose evasivo: — Ecco, ti dirò; gli ho parlato così poco che non potrei giudicare della sua intelligenza. Questo per il morale, quanto al fisico non c’è male. Io non gli farei certo un ritratto, ma tu non lo guarderai con l’occhio pittorico; e basta.

— Non ti capisco, zio, non ti capisco, — ripetè Oretta inquieta. — Si direbbe che Guglielmo ti è riuscito molto antipatico.

— Che dici, bambina mia? Antipatico qualcuno che piace a te e che tu ami? No, no, rassicurati. Tu lo hai incontrato due mesi fa ai bagni di mare, e fra altri due mesi sarai sua moglie; tu, la piccola Oretta diverrai la signora, anzi la contessa Laura Bonventuri, e mentre mi lascerai io ti darò la mia santa e quasi paterna benedizione. Sei contenta ora?

Egli parlò circondando col suo braccio le spalle della nipote e la sua voce sempre così [p. 93 modifica]ferma da sembrare talvolta rude, vibrò lievemente prima d’ironia poi di commozione. Ma Oretta, assorta nei suoi pensieri d’amore e di nozze, non se ne accorse.

Così avvenne che due mesi e mezzo dopo il pittore Lucani accompagnò alla stazione sua nipote, la quale, terminate le varie cerimonie, partiva per Parigi con suo marito, e mentre egli l’abbracciava nello scompartimento riservato del treno di lusso, tutto ingombro di valigette, di mantelli e di fiori, il suo volto appariva così pallido e i suoi occhi così smarriti che Oretta si spaventò.

— Ma zio, tu stai male, — gli disse stringendogli le mani alle tempia e fissandolo ansiosa in volto, ma egli si sciolse dolcemente dalla stretta di quelle piccole palme inguantate e impresso un ultimo bacio sul bel viso adombrato dal velo, discese in fretta e s’allontanò. Quasi di corsa, per le strade pressochè deserte di quell’ora meridiana, si diresse al suo studio, salì i quattro piani e si rifugiò in quell’angolo di mondo tutto suo e così pieno di soavi memorie.

— È partita, è partita, — egli si diceva andando concitatamente a rapidi passi dalla terrazza allo studio e dallo studio alla terrazza e gli pareva che in quelle due parole fosse racchiusa la sentenza malinconica di tutta la sua vita. Mai, nemmeno tanti anni innanzi, quand’era stato abbandonato da un’a‐ [p. 94 modifica]mante cara, egli aveva sofferto così. Perchè quella donna era passata nella sua vita e l’aveva resa più intensa e più bella, ma Oretta se n’era impadronita, s’era fatta il centro e la fine d’ogni suo pensiero, l’aveva allontanato dalle altre, l’aveva isolato nell’orbita della sua piccola volontà teneramente dominatrice. Egli contava trentacinque anni quando gli era stata affidata Oretta che ne aveva quattro ed era orfana di un suo fratello morto in miseria per vizi e per conseguenti malattie. Ella gli era sembrata dapprima un delizioso impaccio alla sua vita libera e disordinata d’artista ancora giovine, ma a poco a poco la bellezza e la grazia della piccina, poi della fanciulla, poi della donna, l’avevano conquistato. Tutta quell’oscura parte di sentimento paterno che ciascun uomo forse porta in sè stesso, fatta più vivace e più passionale da un’ammirazione puramente estetica e da una adorazione quasi amorosa per quella graziosa femminilità che gli viveva accanto, s’era sviluppata in un sentimento alquanto complicato che non era più affetto e non era ancora amore, ma aveva dell’uno la tenerezza protettrice, dell’altro la gelosa sensibilità.

— È partita, è partita, — si diceva Fabio Lucani fermo dinanzi al ritratto di Oretta esposto l’anno innanzi a Venezia e tristemente rifletteva che quell’Oretta dipinta da [p. 95 modifica]lui stesso, creata dal suo amore era l’unica che ormai gli rimanesse. L’altra, la vera, la vivente, quella che parlava e rideva con una voce tanto argentina non gli apparteneva più. Uno qualunque era venuto, e senza nessun diritto, senza essere nè più bello, nè più piacevole, nè più intelligente di un altro se l’era presa e portata via. Ed egli era rimasto solo.

Fabio Lucani seguitò così per un mese a meditare sulla partenza di Oretta e sull’ingiustizia degli umani destini, finchè ella ritornò da Parigi e venne un giorno a trovarlo.

Indossava una lunga pelliccia scura sopra un abito di velluto nero e fra tutto quel bruno opaco, sotto un bizzarro cappello a piccolo tricorno che esposto in una vetrina di Rue de la Paix aveva portato come un poema il cartellino del vien de paraître, la sua bianchezza e la sua biondezza sembravano più delicate, più fragili, più molli; le davano l’apparenza di certi fiori di serra tropicale che l’aria troppo viva uccide.

— Come ti farei volentieri un ritratto così, fra tutta quell’ombra notturna, — diceva il pittore, socchiudendo gli occhi come per vedere nei suoi indecisi contorni la figura del quadro.

Oretta rise alzandosi d’improvviso con un atteggiamento spaventato.

— Per carità, zio. Se tu sapessi quanto ho [p. 96 modifica]da fare. La casa in disordine, i domestici che non conosco ancora, cento visite da restituire, cento da ricevere, e i thè e i teatri e i concerti. Anzi, bisogna che ti lasci subito, sono le cinque e m’aspettano.

Fuggì con un bacio affrettato, leggera come un uccellino dalle penne nere e dalla testa dorata e Fabio corse a guardarla ancora dalla terrazza fra i rami contorti della vite vergine ormai spoglia. La vide salire nell’automobile verde-cupo, dopo aver dato rapidi ordini al meccanico e scomparire all’angolo della via.

— È partita, — si ripeteva egli rientrando nello studio dov’era rimasto il profumo di lei come l’essenza di una cosa sfuggente e inafferrabile. — È partita. E quando, quando ritornerà?

Ella ritornò sempre più di rado e sempre più brevemente per un intero anno, finchè un giorno, dopo settimane e settimane che Fabio invano l’attendeva, ella gli capitò nello studio con un volto fosco, dove solo gli occhi brillavano d’ira e d’indignazione.

— Sai, zio, che cosa ho saputo? Guglielmo gioca, gioca ostinatamente tutte le notti da oltre due mesi e perde perde in modo da rovinarsi. Capisci? È orribile. Dimmi tu: che cosa posso fare?

Fabio si strinse lentamente nelle spalle guardando la nipote che cincischiava il suo fazzoletto di trina con le dita convulse, e in[p. 97 modifica]tanto provava una specie di ironica gioia nel sapere in colpa il marito di Oretta. Quel caro Bonventuri che giocava e si rovinava allegramente, quasi quasi incominciava a diventargli simpatico perchè sua moglie s’indignava contro di lui.

— Dovresti rimproverarlo tu, zio; chiamarlo qui con un pretesto, fargli capire la sua responsabilità e la sua colpa e proibirgli di giocare ancora sotto pena di....

— Sotto pena di.... — ripetè Fabio Lucani agitato da un’oscura speranza.

— Sotto pena di vedermi abbandonare il tetto coniugale, — terminò Oretta con una gravità solenne che parve deliziosa a suo zio.

— Davvero? Lasceresti tuo marito e ritorneresti a vivere con me?

— Naturalmente, s’egli mi rovina.

Fabio si trattenne a stento dall’abbracciare la nipote, tanto si sentiva felice, e da quel giorno ogni volta che ella tornava, e tornava ora spessissimo, le domandava notizie di Guglielmo, trepidando.

— Gioca, gioca. Stanotte è rincasato alle tre. L’ho rimproverato, mi sono disperata. Tutto è inutile.

E Fabio gioiva dentro di sè mentre atteggiava il volto al più tenero compatimento.

Ma un mattino Oretta si precipitò nello studio con un viso ancora più sconvolto e gli mise sott’occhio un biglietto scritto su carta [p. 98 modifica]rosa che incominciava: «Caro Gugù», e seguiva fissandogli per la sera il consueto appuntamento in un ristorante notturno colla sua piccola Rirì!

— Glie l’ho trovato in tasca stamattina, mentre dormiva e sono corsa subito da te, subito, perchè tu mi dica che cosa debbo fare. Un’amante, anche un’amante, capisci? È troppo, io non ne posso più. Io impazzisco di rabbia e di vergogna.

Ella s’aggirava per lo studio come una belvetta in gabbia, torcendosi le mani e pestando il piede ogni volta che si fermava. Ed ogni volta, suo zio approfittando dell’interruzione incominciava pazientemente: — Ascolta.

Finalmente potè parlare e con le mani di Oretta nelle sue per infonderle calma e pazienza le disse con gravità:

— Mi pare che ti rimane a fare solo una cosa, molto semplice e molto naturale: rimanere qui, non rimettere più piede in casa di tuo marito, castigarlo così con fierezza e con dignità di tutte le sue colpe.

Ma mentre egli attendeva che il viso di Oretta si rischiarasse e che ella buttandogli al collo le braccia gli dicesse con semplicità e con tenerezza: — Sì, zio –, la vide invece mordersi nervosamente le labbra con le sopracciglia unite da una ruga di corruccio e scuotere la testa in segno di diniego.

— No, zio, tu non hai ragione. Guglielmo [p. 99 modifica]sarebbe troppo contento s’io lo abbandonassi al gioco ed alle amanti, s’io lo lasciassi libero di passare le notti fuori di casa e di ricevervi di giorno le sue amiche. No, no, sarebbe troppo comodo per lui, sarebbe troppo allegro. Io devo e voglio restargli vicino non ostante tutto e lottare fino all’ultimo, magari creandomi una vita d’inferno. Ma fuggire no, mai.

Ella aveva sollevato la testa con un moto di sfida orgogliosa che Fabio Lucani ammirava come artista ma deplorava come uomo e dopo un momento ella s’alzò d’impeto come se volesse slanciarsi nella lotta e s’infilò la pelliccia, si ricompose il volto dinanzi allo specchio e porse la guancia a suo zio.

— Addio, lasciami andare che è tardi, — mormorò, e pose diligentemente il biglietto rosa nella sua borsetta d’oro come una piccola arma insidiosa pronta a colpire al momento opportuno.

Fabio Lucani la guardava e il suo volto cupo e la sua persona curva parevano invecchiati in quell’ora di dieci anni. Era finita; la sua Oretta mai più sarebbe ritornata. E per tanto tempo egli si era illuso che il suo amore, la sua protezione, la serenità tranquilla che egli le offriva e tutta la sua riconoscenza e tutta la felicità che ella gli avrebbe data bastassero a trattenerla presso di sè, nella casa che per vent’anni era stata [p. 100 modifica]sua, mentre il marito l’oltraggiava e la feriva. Invece ella preferiva a lui ed alla sua adorazione, l’indifferenza brutale di quell’uomo, ella sceglieva la lotta continua, la contesa umiliante, la piccola guerra d’ogni giorno, e d’ogni ora, pur di non separarsi da quell’imbecille libertino che la rovinava giocando e che la tradiva con una canterina di terz’ordine.

— Addio, ti farò sapere qualche cosa domani, — gli disse ancora Oretta scendendo le scale. Ed egli restò a guardarla finchè ella scomparve, poi rientrò e sedette al suo scrittoio piegando il volto sulle braccia. Ed ancora una volta egli si ripetè quelle due parole che parevano racchiudere tutto il suo malinconico destino:

— È partita.

Ma questa volta gli parve che fosse per sempre.